I film di Wenders, Payne, Lanthimos e Holland sono tutti candidati (in categorie diverse) ai prossimi Academy Award e hanno tutti buone chance di vittoria. Guardiamoli più da vicino!
«Perfect Days» di Wim Wenders
Sono ormai parecchi anni che i film di Wenders non fanno più presa sul grande pubblico. E in tanti pensano che uno dei più grandi registi della sua generazione – alla soglia degli ottant’anni – non abbia in fondo molto da dare al cinema contemporaneo. Ma con «Perfect Days» – presentato in concorso a Cannes lo scorso anno e in nomination ai prossimi Oscar come miglior film internazionale – il regista tedesco è sembrato recuperare la sensibilità, l’originalità e l’intelligenza del suo cinema più puro e autentico.
Il film, girato interamente in Giappone, racconta la storia di Hirayama, addetto alle pulizie delle toilette pubbliche di Tokyo, e della sua quotidianità scandita dalla routine e abitudini ferree. La serenità nei confronti della vita che l’uomo lascia trasparire non viene scalfita nemmeno da alcuni eventi inaspettati – un collega che si licenzia all’improvviso, l’arrivo in visita della nipote, il bar preferito che chiude senza preavviso – che affronta con grande equilibrio. È un film “analogico”, fatto di elementi estremamente semplici e vagamente nostalgici, (il cellulare con la tastiera, le musicassette a nastro, la macchina fotografica col rullino) ma anche di gesti dal sapore antico, legati a tempi e abitudini scomparse ma non per questo reazionari o passatisti.
Wenders si sofferma sulla genuinità delle piccole cose non per fare della retorica spicciola, ma per riflettere su temi universali come l’ineluttabilità del passare del tempo e l’accettazione della vita in tutte le sue sfaccettature. Hirayama ricorda in questo molti dei personaggi del cinema di Yasujirō Ozu, uno dei grandi maestri del cinema giapponese (cui Wenders trae esplicita ispirazione), che nonostante gli inciampi e i dolori della vita riescono sempre a trovare la propria salvezza in un’accettazione che non è mai rassegnazione ma, anzi, un sereno rapporto con il destino e le cose della vita. E anche solo per questo merita di essere preso molto sul serio.
(Conca Verde, Cinema del Borgo, Uci Orio, Arcadia Stezzano, Anteo Trevigio, Starplex Romano di Lombardia)
«The Holdovers - Lezioni di vita» di Alexander Payne
Inserito (un po’ a sorpresa) nella decina di titoli candidati all’Oscar per il miglior film, «The Holdovers» è quel tipo di opera che mette tutti d’accordo. Ambientato all’inizio degli anni Settanta in un collegio di un luogo imprecisato del New England, racconta del rapporto fra un professore di lettere classiche di mezz’età (interpretato da Paul Giamatti), burbero, intransigente e un po’ goffo, e un giovane studente molto dotato ma dall’indole ribelle. Un rapporto che si costruisce pian piano mentre entrambi – per vicissitudini varie – si trovano costretti a passare le vacanze natalizie all’interno del collegio. Diversi in tutto e lontani anni luce per età, estrazione, carattere e provenienza, i due lentamente cominciano a rispettarsi e comprendersi, fino a stabilire un rapporto di affetto e fiducia tale da creare un sodalizio destinato a segnare per sempre le loro vite.
Scorre con la precisione di un orologio svizzero «The Holdovers»: è scritto bene, perfettamente recitato, diretto in modo impeccabile e, come dimostrano le critiche e il modo in cui è stato accolto, fa perfettamente centro. Eppure questa – innegabile – perfezione paradossalmente è anche il suo punto debole. Questo cinema così ragionato, matematico, preciso, che non ha una virgola fuori posto, mette d’accordo tutti e in cui non si trovano difetti evidenti, corre il pericolo di risultare troppo scolastico e convenzionale. La sua prevedibilità, il suo ritmo cadenzato e persino i twist della trama (impeccabili eppure scontati) rischiano di renderlo un prodotto anodino, dove tutto è pesato e proporzionato con attenzione.
Payne e gli autori sono bravissimi nel creare un’atmosfera sospesa, lontana nel tempo e in uno spazio quasi onirico, rivestendola di un’umanità complessa e mai banale. Un’atmosfera però a cui avrebbe giovato una qualche deviazione o trasformazione inaspettata o un qualsiasi guizzo che portasse fuori dal consueto e dal prevedibile. E forse avremmo avuto un film meno ecumenico, ma senz’altro più interessante.
(Capitol, Uci Orio, Arcadia Stezzano, Anteo Trevigio, Starplex Romano di Lombardia)
«Povere Creature!» di Yorgos Lanthimos
Raro caso di film che mette d’accordo critica e pubblico, vincitore del «Leone d’oro» all’ultima Mostra del cinema di Venezia e con undici nomination ai prossimi Oscar, «Povere Creature!» è già un cult.
Tratto dal romanzo omonimo dello scrittore scozzese Alasdair Gray pubblicato nel 1992 – un’opera sorprendentemente capace di decostruire l’immaginario della letteratura gotica (e fantastica) in ottica postmoderna, accostandole una visione fortemente politica della società contemporanea – il film è un adattamento estremamente visionario che rimescola e riarticola storie e immaginari del cinema fantastico più classico (da Fellini a Tim Burton fino a Del Toro) all’interno di in un mondo in cui l’estetica della Londra vittoriana convive con la distopia steampunk da fumetto e l’eredità del romanzo gotico (da «Frankenstein» in giù).
Il risultato è un film non particolarmente originale o innovativo – parla di temi di cui il cinema parla da sempre come il rapporto uomo macchina, la creazione della vita, la relazione uomo-donna, la fertilità e l’impotenza – ma riesce a trovare una chiave comica e disimpegnata che funziona molto bene. La storia di Bella Baxter (Emma Stone), donna suicida resuscitata da un chirurgo-scienziato pazzo (Willem Dafoe) tramite un trapianto di cervello, che pian piano impara a conoscere il mondo e la vita diventando sempre più consapevole di sé e del proprio corpo, richiama poi tutta una tradizione positivista e illuminista (da Voltaire a Rousseau e indietro fino alla filosofia cartesiana) che Lanthimos e gli autori si divertono a dissacrare con ironia.
Insomma un film pieno di riferimenti, capace di mettere insieme cultura alta e popolare, costruendo un discorso intelligente e attualissimo, forse meno politico del romanzo di partenza, ma che si sofferma su questioni nodali e dibattute della nostra contemporaneità (il ruolo della donna, la cultura patriarcale, la politica del corpo, il côté biopolitico...). A ben guardare «Povere Creature!» è un film che coglie perfettamente lo spirito del tempo, affronta temi scottanti e li interpreta in maniera (fin troppo) esplicita e didascalica. Non esattamente un cinema d’autore brillante, complesso o profondo quindi, ma se paragonato a film con intenti simili come «Barbie», un vero capolavoro.
(Conca verde, Uci Orio e Curno, Arcadia Stezzano, Anteo Trevigio, Starplex Romano di Lombardia)
«Green Border» di Agnieszka Holland
In pochi forse si aspettavano da Agnieszka Holland un’opera come «Green Border». L’autrice polacca, oggi settantacinquenne, aveva infatti smarrito da diversi anni la propria vena politica e impegnata. Di fronte a un tema tanto complesso e urgente – e che la tocca da vicino – come quello dei migranti non si è però tirata indietro, confezionando un film di enorme valore etico e civile. «Green Border» racconta dei tentativi di alcuni migranti siriani, afgani e dell’Africa subsahariana – una famiglia, una donna, alcuni ragazzi – di superare il confine fra Bielorussia e Polonia per raggiungere altri paesi europei come la Svezia e la Francia.
Il tutto mentre i militari dei due paesi di confine compiono su di loro violenze e prevaricazioni di ogni sorta e alcuni attivisti per i diritti umani polacchi si spendono per aiutarli fornendo assistenza alimentare, medica e legale. Il film si inserisce nel contesto della crisi dei migranti del 2021 e specialmente nel piano orchestrato dal dittatore bielorusso Alexander Lukashenko per colpire le politiche migratorie dell’UE. Accogliendo cioè migliaia di persone in fuga dai propri paesi, facendole arrivare in aereo a Minsk e spingendole poi ad attraversare illegalmente il confine con il Paese dell’Unione europea più vicino, la Polonia. Come conseguenza dei respingimenti ordinati dal governo polacco, migliaia di persone si sono così trovate in una situazione di stallo dai contorni catastrofici e disumani.
Il film di Holland, fotografato in bianco e nero (tranne per l’inquadratura inziale dall’alto sulla foresta attraverso cui corre il confine, il green border del titolo) e filmato quasi interamente camera a mano, da vicino, fissandosi su corpi e volti, non risparmia nulla allo spettatore per come mostra violenze, oppressioni, ingiustizie. Ma allo stesso tempo recupera un’umanità complessa, che emerge fra le pieghe del racconto e tocca da vicino le coscienze degli spettatori portati, questi ultimi, a chiedersi come si comporterebbero se si trovassero in situazioni simili e in una delle diverse posizioni che il film racconta. Per noi, che in Italia i migranti siamo abituati a vederli arrivare dal mare, un’occasione per riflettere e confrontarci da vicino con un uno dei più grandi drammi della contemporaneità assumendo una prospettiva differente. Da non perdere.
(dall’8 febbraio)