Alla fine quello che si temeva è accaduto. I cinema (insieme ai teatri e le sale da concerto) chiudono. E questa volta potrebbe essere per sempre. Non è una frase a effetto o buttata lì per alimentare polemiche, si tratta purtroppo di un dato reale. Le sale cinematografiche (per restringere il discorso al settore protagonista di questo articolo) per motivi che sappiamo o possiamo facilmente immaginare, già da diverso tempo non se la passano troppo bene. Imporre una nuova chiusura a lungo termine potrebbe davvero metterne a rischio la sopravvivenza. Con conseguenze a quel punto disastrose non più soltanto per i lavoratori del settore (comunque numerosissimi), ma per tutti noi.
Certo, un mondo senza cinema non significa anche senza film, ma sarebbe come vivere senza biblioteche e librerie, stadi o palazzetti per lo sport ma anche scuole, ristoranti, bar, mercati… cioè un mondo senza quei luoghi deputati non solo a ospitare qualche tipo di opera, spettacolo, cerimonia o prodotto ma essenza stessa dello svago, necessità o passatempo di cui sono espressione, nonché luoghi cardine della nostra socialità. Insomma un mondo per molti (forse ognuno) di noi quasi impossibile da immaginare.
Ovvio, i motivi per cui i cinema chiudono sono estremamente gravi e sicuramente la cosa non fa piacere nemmeno a chi ha imposto la decisione. Inoltre molti di noi – e chi scrive non fa eccezione – comprendono e rispettano le scelte del Governo. Lo fanno specialmente se vivono e lavorano in questa città e hanno dovuto per mesi affrontare e subire il volto più feroce della pandemia. Nessuno minimizza la violenza di questa seconda ondata o si sogna di porre su un piano inferiore la salute rispetto a una serata al cinema, a teatro o a un concerto. Su questo non c’è discussione che tenga.
Eppure sostenere – come stanno dicendo in molti in questi giorni – che questa volta il settore del cinema (e della cultura in generale) avrebbe meritato maggior rispetto, non è una posizione irrispettosa o sorda. E non lo è affermare che come sia stato giusto chiudere tutto la scorsa primavera, non lo sia altrettanto oggi. I fatti lo dimostrano, i dati scientifici anche e, in fondo, lo sappiamo bene tutti. I numerosi appelli, manifestazioni e proteste lanciate da addetti ai lavori e cittadini in queste ultime ore ne sono il sintomo più evidente.
Non siamo sguarniti di ogni protezione come lo eravamo a marzo. Il senso di responsabilità individuale cui tutti siamo chiamati – al netto dei pochi predicatori del negazionismo –ne è la dimostrazione. Ma anche le misure di sanificazione e prevenzione dei contatti, oltre all’uso delle mascherine, hanno reso le sale cinematografiche luoghi sicuri. Il sistema di prenotazione dei posti studiato per rendere l’accesso più rapido (evitando le code) e sicuro (con la capienza delle sale ridotta della metà o dei due terzi), garantisce inoltre una più semplice attuazione del distanziamento. Con l’imposizione e il rispetto di queste norme si sono tenute nelle scorse settimane la Mostra del cinema di Venezia e altre manifestazioni e festival in tutto il territorio nazionale (la Festa del cinema di Roma si è conclusa da pochi giorni). In nessuno di questi si è verificato alcun focolaio, a Venezia dove pur nella riduzione dei posti si è accettato il rischio di mettere in piedi un festival internazionale di ampia portata, tutto si è svolto in sicurezza e senza conseguenze.
Inoltre le code e gli assembramenti di cui si vedono costantemente le immagini nei notiziari, non hanno niente a che vedere con i cinema, luoghi in cui (purtroppo) già da parecchi anni, e quindi anche in condizioni normali, il pubblico è sempre di meno. Motivo per cui quelli che si spostano per andare a una proiezione non sono certo masse incontrollate di persone (si muove molta più gente per andare allo stadio, anche a capienza ridotta, alle funzioni religiose o a fare la spesa).
Che tutte queste precauzioni stiano funzionando però non lo affermano solo cinefili incalliti o esercenti e dipendenti delle sale cinematografiche, ma alcune approfondite ricerche in tutto il mondo. Secondo uno studio di Celluloid Junkies consultabile qui emerge che nessun caso di contagio da Covid a livello globale sia riconducibile a una sala cinematografica. Incrociando dati sul monitoraggio dei contagi su un bacino di oltre cento milioni di spettatori in tutto il mondo non è stata riscontrata alcuna risultanza di focolai, mentre lo stesso tipo di analisi ha individuato diversi contagi in luoghi come ristoranti, locali notturni, bar e chiese.
Altri studi come quello di Uc David Healt o dell’Istituto Hermann Rietschelhanno cercato di capire perché la sala cinematografica sia un luogo a bassissimo rischio di contagio. Come è piuttosto logico e immaginabile hanno evidenziato che restare seduti al proprio posto ben distanziati dagli altri con la mascherina sul viso e senza parlare e mangiare (la vendita e il consumo di cibi e bevande sono vietati ovunque dall’inizio della pandemia) per un periodo relativamente breve di tempo non rappresenta un pericolo sensibile. Inoltre l’esposizione all’aria condizionata (secondo diverse ricerche possibile veicolo del virus) anche in caso di film di lunga durata è trascurabile e non può essere paragonata a quella di luoghi di lavoro nei quali si passano molte più ore e compiendo gesti (conversare, bere, mangiare, portarsi le mani sugli occhi o sul viso) che durante una proiezione non avvengono o quasi.
Insomma è abbastanza stupefacente come il comitato tecnico scientifico, chiamato a valutare proprio questo tipo di studi e statistiche, non abbia considerato la possibilità almeno di pensare a una soluzione mediata, riducendo le proiezioni o gli orari di apertura invece di chiudere indiscriminatamente. Perché sappiamo bene quanto la situazione sia grave, di dover fare tutti enormi sacrifici e che si andrà probabilmente incontro a nuovi lockdown. Quando succederà anche i lavoratori dello spettacolo (i quali, anche se non sono fra quelli che invadono le piazze, spaccano le vetrine e si scontrano con la polizia, meritano comunque di essere ascoltati), si chiuderanno in casa e rispetteranno le regole come hanno sempre fatto. Fino ad allora però dare una chance ai cinema (come ai teatri, alle sale da concerto e agli altri spazi di aggregazione culturale), sarebbe un segnale incoraggiante. Un segnale di sopravvivenza.
Perché fra le tante cose che questa emergenza ci sta dicendo c’è anche quanto sia indispensabile, irrinunciabile e vitale la cultura. Lunedì per la prima volta dal marzo scorso diversi quotidiani nazionali l’hanno messo in prima pagina. Senza retorica e senza ripetere quello che in queste ore si legge un po’ dappertutto è bene ricordare come difendere la cultura in un momento come questo sia decisivo non solo per chi lavora nel settore, ma per tutti noi. Perché è quello di cui siamo fatti e in fondo anche le esperienze, la socialità e la condivisione della cultura sono una forma di salute.
Forse, come sostiene il ministro Franceschini, il tempo darà ragione a lui e a chi ha scelto la linea dura e fra meno di un mese tutto questo ci sembrerà lontano e piccolo rispetto a ciò che dovremo affrontare. Ma il fatto di parlarne, di battersi e dispiacersi per quello che rischiamo di perdere è un segnale incoraggiante. È la dimostrazione di quanto nessuno abbia intenzione di arrendersi.