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Osservazione, memoria, comprensione. «Le mura di Bergamo» di Stefano Savona

Articolo. A tre anni esatti dallo scoppio della pandemia e nelle settimane in cui l’inchiesta del tribunale di Bergamo entra nella sua fase cruciale, il documentario di Stefano Savona – presentato in anteprima nazionale al «Bergamo Film Meeting», al cinema dal 23 marzo – torna sulla tragedia che ha investito la nostra città. Racconta i giorni più duri, quelli dell’emergenza, ma anche il dopo, riflettendo sull’eredità e il lascito che un’esperienza tanto traumatica ci ha consegnato. Con una sensibilità e un rigore davvero rari per il cinema di oggi

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Una delle narrazioni che ha preso forma con maggior forza durante i mesi più duri della pandemia – e che in molti nel corso del tempo si sono sentiti di abbracciare – è quella legata a un’idea di condivisione della sofferenza su larga scala. Come se il dolore che ha colpito l’intero pianeta in maniera del tutto indiscriminata avesse, per questo motivo, una sorta di dimensione collettiva. È così che i media l’hanno raccontato ed è con quell’idea in testa, in fondo, che tanti di noi hanno affrontato quei tragici momenti. Forse per fare fronte all’isolamento che i mesi di lockdown hanno imposto o semplicemente per provare a dare un senso al caos, all’insensatezza e alla caducità delle nostre vite rivelatisi così all’improvviso.

Questa narrazione, sorta soprattutto grazie al racconto della stampa e al contributo “spontaneo” dei social network, si è confrontata ed è stata veicolata quasi esclusivamente attraverso le immagini, catturate in diretta e che arrivavano da ogni parte del mondo. E sono state proprio queste immagini a dare l’illusione di una storia condivisa e a creare un racconto nel quale potersi riconoscere e “soffrire” tutti insieme e allo stesso modo.

Come sappiamo, però, tutto questo è vero solo in parte. In prima istanza perché la pandemia non ha colpito dappertutto con la medesima forza e non tutti hanno vissuto con lo stesso coinvolgimento e la medesima drammaticità quel periodo. E per quanto possa sembrare solo un dettaglio, quest’ultimo è invece un punto fondamentale per comprendere il dramma del Covid. Da nessun’altra parte come a Bergamo e nella sua provincia, in Italia, si è avuta infatti una percezione tanto profonda della tragedia e della spaventosa emergenza che il virus ha scatenato. Tanto che nessuno allo stesso modo dei cittadini di Bergamo è in grado di porsi come mediatore, e allo stesso come simbolo, di tutto questo. Il film documentario di Stefano Savona «Le mura di Bergamo» – presentato in anteprima nazionale al «Bergamo Film Meeting», al cinema dal 23 marzo – muove proprio da questo semplice spunto per provare a capire, ancora prima di raccontare, cosa sia stato il Covid per chi ne ha subito i colpi nella maniera più brutale.

Non è facile reggere la visione di un film come «Le mura di Bergamo». Non lo è per nessuno che abbia provato sulla propria pelle (o attraverso l’esperienza di un famigliare) la malattia e non lo è a maggior ragione per gli abitanti della nostra città. A prescindere dal fatto di essere stati o no – e più o meno direttamente – toccati dal virus, lo sguardo attraverso il quale Savona entra nella ferita che il Covid ha aperto nelle vite e nelle coscienze dei bergamaschi è talmente esplicito e radicale da lasciare sgomenti. Il regista palermitano divide il film in tre parti: una prima nella quale mette insieme i momenti più drammatici vissuti dalla città durante il mese di marzo del 2020, una successiva dove a emergenza finita osserva i pazienti sopravvissuti e le persone che ce l’hanno fatta tornare lentamente alla normalità e un’ultima in cui mostra – a distanza di tempo – alcune persone, sconosciute fra loro, condividere i propri ricordi e le proprie esperienze, tutte diverse, legate alla pandemia in una sorta di grande terapia di gruppo.

Tre parti che rappresentano un percorso. Di osservazione, di memoria e di comprensione. Qualcosa che riscrive da capo e sembra rimettere in scena per la prima volta tutto quello che fin qui abbiamo creduto di sapere sul Covid e che invece ci appare come una rivelazione: un’esperienza che abbiamo conosciuto da vicino ma che forse stiamo già iniziando a dimenticare.

La prima parte è quella all’apparenza più simile ai reportage giornalistici che nei primi mesi del 2020 ognuno di noi seguiva ogni giorno attraverso il web e la tv. Eppure il regista e la sua troupe, riprendendo da dentro gli ospedali, le abitazioni dei pazienti, le ambulanze e le strade deserte di quella Bergamo spettrale, sono riusciti a trasmettere come mai prima l’angoscia, la disperazione e il senso di impotenza che si erano impossessati di tutto e di tutti durante le settimane in cui i morti si contavano come i caduti in un campo di battaglia. I medici, i volontari, gli operatori sanitari, i malati e i loro famigliari che vediamo attraverso l’obiettivo della camera sono come corpi svuotati, incapaci di comprendere appieno lo straziante presente che vivono, ma allo stesso tempo mossi da un’umanità e una forza d’animo commoventi.

Ed è qui che emergono la grande sensibilità e bravura di un filmmaker come Savona, uno che da documentarista ha conosciuto e raccontato realtà tragiche e terribili come quelle del Kurdistan e della Palestina – il primo in «Primavera in Kurdistan» (2006), la seconda in «Piombo fuso» (2009) e nel recente «La strada dei Samouni» (2018) – certamente del tutto differenti da quella di Bergamo, ma che hanno aiutato il regista a costruire lo sguardo empatico, essenziale e allo stesso tempo radicale che riesce a esprimere. Savona non preme sul tasto della commozione e con un grande rispetto – che spesso sembra sfociare nell’incredulità di chi si trova di fronte a qualcosa troppo grande da comprendere – osserva in modo pudico e con la giusta distanza la catastrofe che gli si spiana di fronte. La grande forza comunicatrice e insieme narrativa del cinema si manifesta in maniera fortissima proprio attraverso questa modalità di racconto.

Le immagini del film, benché ci sembrino fin troppo familiari, non hanno nulla a che fare con quelle dei reportage televisivi di cui dicevamo. Non hanno alcuno scopo cronachistico e non vogliono veicolare nessun tipo di informazione. Sono invece immagini cariche di dolore, sofferenza, persino di arrendevolezza e disperazione, che chiedono di essere guardate proprio per la durezza che esprimono. Non c’è alcun valore morale al quale accompagnarle, nessuna “resilienza” o “rinascita”, nessuna retorica del non mollare o dell’uscirne come persone migliori. Ed è proprio per questo che ne «Le mura di Bergamo» sembra di vedere la tragedia stessa per la prima volta. Il cinema è capace di avvicinare come nessun altro medium chi osserva alla parte più spaventosa della catastrofe, perché costringe a guardare nell’abisso e a prendere coscienza senza alcun filtro e alcuna consolazione dell’immanenza inviolabile della morte.

È proprio sulla morte e sul suo significato più profondo all’interno di una contemporaneità come la nostra, sempre meno in grado di fare i conti con la complessità dell’esistenza, che il film riflette con maggior forza. Superata la parte in cui documenta l’emergenza, «Le mura di Bergamo» inizia a guardare in faccia direttamente le persone. Quelle che a causa del caos e dello smarrimento sono rimaste a lungo senza un nome, senza un volto. E sono state raccontate solo come numeri: il numero di contagiati, di ricoverati, di morti, persino il numero delle bare portate via con i camion dell’esercito…

Il film fa in modo che i sopravvissuti parlino anche per tutti quelli che non ci sono più, riuscendo in questo modo a registrare alcuni istanti di realtà intensissimi. Come quello in cui un uomo anziano, che dopo mesi di ricovero sta finalmente per tornare a casa, confessa la sua amarezza e il suo dispiacere per essersi salvato. Siccome era convinto che non ce l’avrebbe fatta, racconta, aveva fatto tutto il durissimo percorso mentale di chi accetta, con rassegnazione, l’incombere della morte. Ma ora, scoprendosi inaspettatamente ancora vivo, dice di non riuscire ad abituarsi all’idea di dover rifare tutto da capo. Un racconto di un’umanità disarmante che vale quasi da solo tutto il film. E che testimonia una volta in più come l’occhio del cinema sia in grado di catturare momenti straordinari. Perché capace di star fermo a osservare, prendendosi il tempo necessario, aspettando e muovendosi dentro tempi, spazi e prospettive del tutto differenti da quelli di tutti gli altri media audiovisivi.

È un cinema, quello di Stefano Savona, che sa dare il giusto risalto anche alle parole, strumenti che tanto quanto le immagini diventano tracce e impronte di questo percorso documentale dentro le ombre più dolorose del nostro presente. Come nel caso del racconto appena citato, infatti, anche in tutta l’ultima parte del film sono le parole a diventare protagoniste, quando le persone che decidono di condividere le proprie esperienze fra loro come in una confessione collettiva parlano prima a sé stesse – come si fa di fronte a uno psicoterapeuta – poi ai propri interlocutori e infine, soprattutto, alla macchina da presa. Quasi fosse proprio quest’ultima, nella sua veste di dispositivo di estrazione e registrazione di pensieri, emotività e ricordi, a veicolare le confessioni. Non diciamo naturalmente che senza l’occhio della camera tutti questi racconti non verrebbero a galla, ma è senz’altro vero che essa gioca un ruolo decisivo.

E in questa terapia di gruppo mediata a venire a galla è, nuovamente, la morte come elemento ontologico. I protagonisti – tutti comuni cittadini fra cui un medico, alcuni volontari, ex malati, parenti stretti di pazienti deceduti e la titolare di un’impresa di pompe funebri – mettono a nudo i propri sentimenti senza cercare consolazione e senza provare a darsi spiegazioni. Parlando del proprio rapporto con la fine, arrivando perfino a immaginarsela e a chiedersi come sarebbe il funerale di ognuno di loro. La chiave del film probabilmente è qui: in questo punto di arrivo nel quale giudizi, pensieri, tentativi di metabolizzazione e spiegazione conducono inevitabilmente a un vicolo cieco. A un punto di non ritorno dove regnano l’incertezza, la solitudine e la consapevolezza della morte.

Questo è senz’altro il messaggio più rivoluzionario che «Le mura di Bergamo» porta con sé, perché dà forma all’eredità più spaventosa e complessa che la pandemia ci ha lasciato. E cioè che a fianco del fatto che non ci sia nessun insegnamento da trarre e nessun messaggio da cogliere, non esiste alcuna dimensione collettiva del dolore cui attingere. Perché il Covid ha significato soprattutto morte e un dolore straziante e insensato che ognuno ha dovuto affrontare – e ancora oggi affronta – nel privato della propria interiorità. E che, almeno qui dentro e fuori le mura della città martire, ha lasciato ferite profonde che non si possono cancellare. Per questo, invece di dimenticarlo, superarlo, lasciarlo alle spalle, tutto questo dolore va prima di tutto ricordato, tenuto vicino e coltivato. Proprio come le immagini di questo film ci chiedono di fare.

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