Per contestualizzare il film di Ridley Scott, non c’è bisogno di accennare al rilievo che la figura di Napoleone occupa nella storia moderna o al fascino assoluto – unico e senza paragoni – che esercita da oltre due secoli a livello globale. Tuttavia è importante notare come quella di pensare, scrivere, realizzare un film su Napoleone sia un’operazione assolutamente audace – e rischiosa – perché non si confronta soltanto con la Storia (con la esse maiuscola) ma anche con la storia del cinema. Le opere che il cinema ha dedicato a Bonaparte – di tutti i tipi, i generi e stili – sono ovviamente innumerevoli e spesso hanno contribuito a diffondere nell’immaginario popolare un ritratto dell’imperatore francese fuorviante e eccessivamente tipizzato. E del resto molte delle caratteristiche che comunemente si attribuiscono a Napoleone (l’arroganza, i complessi, l’egocentrismo, la mania di grandezza...), per quanto siano basate su fonti storiche accettate, sono state spesso gonfiate ad arte da cinema e letteratura.
I quattro film che Abel Gance dedicò a Bonaparte – dal quale era letteralmente ossessionato – sui sei che aveva in progetto di realizzare, rappresentano una pietra miliare del cinema francese e qualcosa con cui chiunque abbia voluto raccontare le gesta del condottiero córso da lì in poi ha dovuto fare i conti. Fra questi spicca «Napoleone» del 1927, il film più celebre in assoluto di Gance e fra i grandi capolavori del cinema muto francese, che ancora oggi impressiona per le scelte stilistiche innovative e il grande impatto visivo.
Tuttavia il film su Napoleone con cui tutti hanno paura di confrontarsi non è mai stato realizzato e, sostanzialmente, non esiste. Si tratta del «Napoleon» di Stanley Kubrick: l’opera che l’autore americano ha provato a girare per tutta la vita e non è mai riuscito a portare a termine. Destinato a essere messo in cantiere subito dopo «2001: Odissea nello spazio» (1968), il film non vide la luce per una serie di problemi produttivi e per il costo esorbitante preventivato che nessuna casa di produzione si sentì di affrontare. Kubrick – che aveva speso oltre due anni di ricerche con assistenti ed esperti raccogliendo una enorme quantità di materiale fra cui 15.000 fotografie di possibili location e 17.000 diapositive e arrivando a produrre un’intera sceneggiatura – virò su un progetto meno ambizioso nel quale potesse riciclare gran parte del lavoro già fatto e realizzò «Barry Lindon» (1975).
Nonostante ciò, quel film mai fatto è rimasto come un’eredità ingombrante, che negli anni ha dissuaso schiere di registi dall’imbarcarsi in un simile progetto. Un’eredità che ha fatto nascere molteplici speculazioni sulle reali motivazioni che spinsero Kubrick a rinunciare, probabilmente legate al fatto che il regista non si sentisse del tutto pronto, o in qualche modo preparato, ad affrontare l’impresa, più che a ostacoli di natura economico-produttiva. E mentre si parla di un possibile adattamento della sceneggiatura originale di Kubrick da parte di Steven Spielberg (che più che un film potrebbe diventare una serie), senza perdere tempo e forse senza porsi troppi interrogativi, un altro grande autore e veterano del cinema contemporaneo, Ridley Scott, ha deciso di realizzare il proprio «Napoleon».
A dire il vero, anche in merito a questa versione diretta dal regista britannico bisognerebbe fare qualche precisazione. Quello nelle sale in queste settimane infatti è solo una versione per così dire “accorciata” del film. I 158 minuti di «Napoleon» sono infatti soltanto una riduzione rispetto agli originari 250 (e cioè 4 ore e 10 minuti) voluti dal regista. La versione director’s cut verrà comunque distribuita e andrà direttamente in streaming su AppleTV+ – la piattaforma di proprietà di Apple, produttrice del film – nei prossimi mesi.
Ma al di là della durata e delle differenti versioni, «Napoleon» è un kolossal in tutto e per tutto. Maestoso e roboante come ce lo si aspetta, con un respiro narrativo da romanzo ottocentesco, una ricerca visiva elaborata e una ricostruzione storica minuziosa, anche al netto delle semplificazioni e delle inesattezze storiche. Queste ultime soprattutto sono state sottolineate da molte parti (come l’incontro fra Bonaparte e Wellington in realtà mai avvenuto, mostrato alla fine del film), dimenticando che il cinema non ha alcuno scopo filologico o didattico e può permettersi tutte le licenze che vuole...
La storia inizia nell’ottobre del 1793, nel giorno in cui Maria Antonietta viene ghigliottinata e quando, all’indomani della rivoluzione e sul finire del Terrore di Robespierre, Napoleone inizia la propria ascesa, prima mettendosi in luce come ufficiale di artiglieria dell’esercito durante l’assedio di Tolone e successivamente, nominato generale, nelle campagne di conquista in Italia, Egitto e Siria. Dopo l’incontro e il matrimonio con Josephine e la nomina a Primo console della Repubblica, il film segue passo passo le vicende politiche e militari della vita di Napoleone: dall’(auto)incoronazione a imperatore di Francia, attraverso le grandi battaglie e campagne militari, passando per il confino all’Elba, il ritorno sul trono, la sconfitta a Waterloo, sino al definitivo esilio a Sant’Elena. Il tutto inframezzato dagli episodi della tormentata storia d’amore con Josephine fra tradimenti, irrefrenabili passioni e l’inevitabile separazione. Insomma, esattamente tutto quello che abbiamo sempre saputo (e studiato) sulla vita dell’imperatore. Ma come racconta Ridley Scott tutto questo?
Nonostante le numerose ellissi che opera (oltre all’infanzia e la giovinezza vengono trascurati, o resi in modo schematico, alcuni momenti cruciali), molte delle quali verranno recuperate nel director’s cut, il regista britannico riesce a creare un biopic solido e assolutamente classico, senza guizzi drammaturgici e una narrazione in ordine cronologico del tutto convenzionale. Scott non sembra subire molto il fascino di Bonaparte come uomo politico, mentre appare molto più attratto dalle sue imprese militari.
È infatti nella ricostruzione delle grandi battaglie napoleoniche che il film trova i suoi momenti migliori. E in effetti la ricostruzione della battaglia di Austerlitz, complice anche il clima invernale e il bianco dominante della neve che contrasta con il rosso acceso del sangue, oltre che l’uso intelligente che il regista fa dell’acqua mostrando i soldati che annegano e le palle di cannone che vi si infilano come stelle comete, crea una suggestione visiva davvero forte. E anche se ricorda forse un po’ troppo da vicino la sequenza iniziale de «Il gladiatore» (2000) diretto dallo stesso Scott più di vent’anni fa in una sorta di auto-plagio, questa lunga scena merita quasi da sola la visione del film. Allo stesso modo, resta negli occhi il racconto della battaglia di Waterloo dove, in maniera quasi didascalica, Scott mostra con grande chiarezza e innato senso del ritmo e dello spazio i movimenti degli eserciti e i rapporti di forza in gioco.
Dove «Napoleon» coglie meno nel segno è, come era prevedibile, nella parte più complessa. E cioè nel dipingere un ritratto dell’imperatore convincente, lontano dai cliché e non influenzato da giudizi storici a posteriori. Come si diceva all’inizio, la figura di Bonaparte è stata sin troppo vittima della sua popolarità, delle narrazioni, dei luoghi comuni e delle leggende che nel corso del tempo si sono legate al suo nome. E che forse continuano a lavorare sugli immaginari anche a due secoli di distanza. Non è quindi un particolare trascurabile che il film sia diretto da un regista britannico, con una troupe quasi interamente anglosassone e recitato in lingua inglese. Come se il pregiudizio e lo sguardo diffidente che le storie (e la Storia) raccontate dagli inglesi – i suoi nemici più acerrimi – su Napoleone filtrino nella rappresentazione per nulla lusinghiera che ne viene fatta. E cioè quella di un Bonaparte rozzo, parvenu e spregiudicato fino all’autolesionismo, incapace di guadagnarsi il rispetto dei nemici e mal sopportato anche dalla nobiltà francese. Disprezzato e deriso da quasi tutti quelli che gli stanno intorno – compresa Josephine – spaventati più che affascinati dal suo potere.
Non è carismatico il Napoleone di Scott e non ha i tratti dell’abile uomo politico e del seduttore di popoli che in realtà è stato e la cui leggenda continua ad affascinare non solo i francesi ancora oggi. E le uniche virtù che il film gli riconosce sono tutte ascrivibili al suo ruolo di condottiero: da un lato la capacità di guadagnarsi l’amore e l’ammirazione incondizionata dei suoi soldati e dall’altra le abilità di grande stratega militare. Tuttavia quest’ultima, invece di essere mostrata come un pregio – Napoleone ha di fatto cambiato radicalmente il modo di fare, pensare e usare la guerra, contribuendo significativamente a portare il mondo dell’epoca moderna alla contemporaneità – viene interpretata come una colpa, dato che l’imperatore francese, come recita la didascalia nell’epilogo del film, è stato responsabile di oltre tre milioni di morti. Un metro di giudizio decisamente troppo severo – oltre che revisionista e anacronistico.
Il tutto è supportato dalla recitazione sempre un po’ fuori schema e sopra le righe di Joaquin Phoenix. Uno dei migliori attori della sua generazione che da qualche tempo sembra essersi smarrito. Il suo Napoleone ha i tratti di un personaggio fuori dal tempo e dalla storia, stordito e inconsapevole, che crede solo in sé stesso e non riesce a piacere a nessuno. Il volto e il corpo di Phoenix, che Scott mette al centro di quasi tutte le inquadrature del film, non riescono tuttavia a rendere il magnetismo e l’aspetto ingombrante e totalizzante che l’uomo ha avuto sulla storia del suo tempo, come era forse nelle intenzioni di Scott. E questo probabilmente dice meglio di ogni altra cosa quanto la figura di Napoleone sia complessa, difficile da cogliere, rappresentare e comprendere, per il cinema come per ogni altra arte del racconto. Kubrick l’aveva capito prima e meglio di tutti.