Mentre due dei tre film italiani in concorso a Cannes escono in sala, al cinema si trova anche il bel documentario di Alexandre O. Philippe su David Lynch – che ormai non è più solo un regista ma un’opera a tutti gli effetti – e uno dei migliori film passati a Cannes lo scorso anno. Ve ne parliamo qui.
«Il sol dell’avvenire» di Nanni Moretti
Ha l’afflato di un testamento e l’incedere di una commedia l’ultimo film (forse in assoluto?) di Nanni Moretti. Uscito in sala da noi circa un mese fa, ma presentato in concorso al «Festival di Cannes» in questi giorni, «Il sol dell’avvenire» è qualcosa di simile a un’autobiografia meta-cinematografica. E cioè un’opera dove il regista – che interpreta una sorta di suo alter-ego intento nella realizzazione di un film – riflette sul proprio mestiere, la propria arte e la propria poetica confrontandosi con il presente e con il cinema di oggi. Un po’ sullo stile di «8½» di Fellini o «Effetto notte» di Truffaut, giusto per citare i due film – soprattutto il primo – a cui «Il sol dell’avvenire» è stato maggiormente paragonato.
Ma oltre a tracciare un bilancio esistenziale filtrato dalla vena malinconica della reminiscenza e del ricordo, Moretti fa molto di più. Per merito del suo stile – assolutista, personalista e ombelicale in cui campeggiano le sue manie più celebri – costruisce infatti un universo tutto suo nel quale però gli ideali e le certezze di una vita si trovano a vacillare, a essere messi in discussione dal tempo che passa e dal mondo che cambia. Le riflessioni sull’arte e la cultura, sulla politica e l’impegno civile, sulla memoria e i sentimenti che costellano da sempre i film del regista romano, sono riavvolti all’indietro e rimessi in discussione. E senza alcuna pretesa di trovare risposte ai propri dubbi, Moretti dimostra di essere ancora capace di toccare le corde e di sollevare le questioni più giuste all’interno del dibattito culturale del nostro paese. Un dibattito dove il cinema sembra occupare una posizione sempre meno centrale e un po’ fuori dal tempo. Ma in fondo è anche per questo che nel finale, straordinario, il regista tiene a mostrare che, almeno nel suo di cinema – così come nella sua idea romantica e nostalgica del PCI – c’è (ancora) spazio per tutti.
(Capitol)
«L’amore secondo Dalva» di Emmanuelle Nicot
Ormai è quasi una consuetudine del cinema contemporaneo: quando un regista o un giovane filmmaker si cimenta con la propria opera prima, decide di realizzare un coming of age. E cioè il classico “romanzo di formazione”, il racconto dell’evoluzione di un personaggio verso la maturazione e l’età adulta tramite prove, errori, viaggi, esperienze. Emmanuelle Nicot, con il suo film d’esordio «L’amore secondo Dalva» non fa eccezione, ma a differenza di molti suoi colleghi non sceglie una classica storia di formazione e racconta invece il viaggio di una ragazzina di dodici anni attraverso un vero e proprio incubo: quello dell’incesto. Dalva, la protagonista del film, viene salvata dalle grinfie un padre orco e portata in una comunità di recupero per vittime di abusi sessuali, ma non accetta questa condizione, è ancora legata al padre, che chiama per nome, con il quale crede di avere una relazione sentimentale a tutti gli effetti, respinge la madre come una rivale e si veste e trucca come una donna adulta.
Il film di Nicot ha l’intelligenza di scendere nelle complessità meno sopportabili e comprensibili di un tema disturbante come quello che racconta, senza spingere né sul tasto della commozione né su quello del voyerismo e della prurigine e mettendo in scena un percorso di crescita che è soprattutto una redenzione, una sorta di necessaria rinascita. Ed è così che Dalva, grazie all’educatore che si prende cura di lei e alla compagna di stanza – con i quali dopo una lunga fase di conflitto entra in confidenza – lentamente inizia ad affrontare il suo trauma e prova a comprenderlo ancora prima che a superarlo, per intraprendere un cammino di cui il film ci mostra solo i passi iniziali. Senza quindi suggerire improbabili miracoli o repentine guarigioni, ma dando l’impressione che esista un filo di speranza anche nel più nero degli abissi. Ed è già molto.
(Conca Verde)
«Lynch/Oz» di Alexandre O. Philippe
Alexandre O. Philippe è un documentarista specializzato in opere che analizzano film o registi cult della storia del cinema. Ha dedicato lavori a «Psycho» (ne avevamo parlato qui), «Alien» e ad autori come George Lucas, George A. Romero, William Friedkin e molti altri. Con quest’ultimo lavoro si concentra sul rapporto fra uno dei grandi cineasti del presente, David Lynch, e uno dei film classici più amati di sempre: «Il mago di Oz» di Victor Fleming. L’idea nasce da una vecchia intervista che Lynch rilasciò durante il «New York Film Festival» nel 2002 in cui dichiarò: «non passa giorno senza che io pensi a “Il mago di Oz”». «Lynch/Oz» analizza questo forte legame narrativo, visivo, emozionale, filosofico, storico e memoriale attraverso sei diverse testimonianze di altrettanti registi, filmmaker e critici cinematografici di oggi (fra cui spicca soprattutto il regista cult John Waters), per i quali sia il cinema di Lynch sia «Il mago di Oz» hanno un’enorme rilevanza dal punto di vista affettivo e formativo.
Ne nasce un percorso molto articolato e complesso nell’universo lynchano per mezzo del quale le opere del regista di Missoula vengono analizzate per come ripensano e riadattano il film di Fleming (a partire da «Cuore selvaggio» che lo cita in modo esplicito) ma anche nel modo in cui attraverso questa prospettiva amplificano la poetica e lo stile dello stesso Lynch. Temi come la violenza, il sogno, la follia, l’alterità, la paura e l’orrore che i sei capitoli affrontano, si rincorrono continuamente nelle analisi che i protagonisti mettono in campo (e confrontano alle proprie esperienze artistiche, oltre che a una serie di grandi capolavori della storia del cinema), testimoniando come, per usare le parole di Lynch «ci sia qualcosa riguardo a “Il mago di Oz” che è cosmico. E parla agli esseri umani in modo profondo!»
(Uci Cinemas Orio)
«Rapito» di Marco Bellocchio
A un anno di distanza da « Esterno Notte », il film in sei capitoli sul rapimento Moro – che ha fatto incetta di premi agli ultimi David di Donatello – Marco Bellocchio torna al cinema e in concorso al «Festival di Cannes» con un film incentrato ancora su un rapimento. Un rapimento di tutt’altra natura, avvenuto in un altro luogo e in un altro tempo e senz’altro molto meno conosciuto di quello del leader della DC: quello di Edgardo Mortara. Un momento chiave nella storia dello Stato Pontificio della seconda metà del XIX secolo che consistette nel prelievo forzato che l’ufficio della Santa Inquisizione ordinò ai danni di un bambino di sei anni – Edgardo Mortara appunto. Figlio di una coppia di ebrei bolognesi, secondo un’indiscrezione Edgardo era stato battezzato in segreto, quando era ancora in fasce, da una levatrice cattolica che aveva lavorato per i Mortara. Sulla scorta di questa informazione, la Santa Sede sottrasse il piccolo Edgardo alla famiglia e si occupò di educarlo nella fede e nella dottrina cattolica fino alla maggiore età. A nulla valsero i tentativi, anche disperati, dei genitori di riavere indietro il ragazzo – anche a causa della fervida opposizione di Papa Pio IX – il quale raggiunta la maggiore età scelse di prendere gli ordini sacerdotali e di tagliare i ponti con la famiglia.
Bellocchio si concentra sulla vicenda personale di Edgardo e sul dissidio interiore che fin da bambino lo lacera, sia per il plagio operato dalla Chiesa ai suoi danni sia per come il bisogno di trovare una nuova figura paterna spinse il giovane a farsi stregare dall’immagine del Papa. Tuttavia, il regista utilizza questa vicenda storica – che in un primo momento doveva essere trasposta in film da Steven Spielberg – per mostrare la fine di un’epoca, illustrando gli anni della fine del regno papale e il processo dell’Unità d’Italia come un momento di grandi sconvolgimenti di cui la figura di Edgardo si pone come metafora: così fragile e incapace di comprendere il cambiamento, eppure rapito (e qui il titolo mostra l’ambivalenza fra l’atto violento del sequestro e quello dolce dell’estasi) sia dal mondo seducente e senza tempo che stava per finire sia, per un attimo, da quello nuovo che stava per imporsi. E bastano forse questi echi gattopardeschi a rendere «Rapito» il film affascinante e complesso che è. Vedere per credere.
(Anteo Treviglio)