Con due Palme d’oro su cinque film fatti Östlund è una specie di caso, un fenomeno più unico che raro del cinema contemporaneo. Difficile da spiegare: non è uno con particolare talento o un autore di film strepitosi e indimenticabili, piuttosto sembra bravissimo a trovarsi sempre nel posto giusto al momento giusto. Un po’ come Mahmood a Sanremo per capirci.
Per la verità «The Triangle of Sadness» (che è stato acquistato da Teodora e uscirà prossimamente anche in Italia) non ha convinto molto la critica, ma il pubblico – così come la giuria francese – ha apprezzato e si è divertito molto, dato che si tratta sostanzialmente di una commedia grottesca. Come capita nei grandi festival del cinema però a vincere raramente è il film migliore. Perché c’è tantissima roba da vedere e la moltitudine di sezioni nasconde spesso piccole e grandi sorprese. In attesa che alcune di queste arrivino anche nelle nostre sale diamo un’occhiata più da vicino a quello che è passato da Cannes e che è già uscito (o è in procinto di farlo) nei cinema italiani.
«Nostalgia» di Mario Martone
Il film di Mario Martone – presentato in concorso – è l’adattamento del romanzo omonimo di Ermanno Rea pubblicato nel 2016 poco dopo la scomparsa dello scrittore. Racconta di Felice (Pierfrancesco Favino), un uomo di mezz’età che fa ritorno nella natia Napoli – quarant’anni dopo essersene andato – per prendersi cura dell’anziana madre e sistemare alcune questioni rimaste in sospeso. Un misto di nostalgia, meraviglia e affetto per i luoghi della propria giovinezza fanno decidere a Felice di tramutare quello che doveva essere un breve soggiorno in una permanenza a tempo indeterminato. Tuttavia i fantasmi del passato tornano a infestare e mettere in pericolo la vita del protagonista.
Martone continua la propria personale riflessione e esplorazione di Napoli, sua città natale, come luogo in cui si respirano le contraddizioni del mondo contemporaneo, ma nei confronti della quale esiste una grande fascinazione incondizionata e quasi irrazionale. Nella figura di Felice, nato a Napoli, emigrato a oriente, diventato ricco in Libano e poi stabilitosi al Cairo, risiede lo spirito cosmopolita e ibridato da culture diverse che la città partenopea incarna. Proprio come i vicoli dei Bassi in cui il film si muove: stratificazioni urbane che raccontano una Storia in cui si vedono e respirano contaminazioni secolari.
Ma la Napoli di Martone è anche un luogo profondamente ambiguo: che simboleggia la rinascita del protagonista – un “ventre materno” come lo definisce Rea nel romanzo – capace di recuperare il rapporto con le proprie origini e allo stesso tempo un crocevia di morte, violenza, sopraffazione. Emozioni esiziali e spaventose alle quali non sembra potersi sottrarre. Anche se, come Felice, si insegue l’anima romantica di una città insieme spaventosa e stupefacente come Napoli.
(Capitol/Uci Orio e Curno/Arcadia Stezzano/Anteo Treviglio/Starplex Romano di Lombardia)
«Top Gun: Maverick» di Joseph Kosinski
Gli anni Ottanta non passano mai. Non c’è niente da fare, per qualche motivo il decennio del cosiddetto “riflusso” continua a risultare culturalmente determinante per il nostro immaginario anche a più di trent’anni dalla sua conclusione. E il cinema, così come le serie tv, non smette di ritornarci. Con risultati di popolarità sbalorditivi – basti vedere la nuova stagione di «Stranger Things» uscita in queste settimane il cui successo ha riportato in testa alle classifiche la canzone di Kate Bush del 1985 «Running Up That Hill», contenuta nella colonna sonora.
«Top Gun: Maverick», come ovvio, è uno degli emblemi di questa nostalgia iper-pop. E se il primo «Top Gun», datato 1986, è stato il prodotto culturale che più di tutti gli altri ha reso iconica l’estetica edonista degli anni Ottanta, questo sequel non fa altro che riprodurre esattamente lo stesso copione di 35 anni fa aggiornando (ma nemmeno troppo) al 2022 le situazioni narrative e sostituendo (ma nemmeno troppo) allo scenario della Guerra fredda, quello dell’insicurezza del mondo di oggi. Il risultato è praticamente un remake, con Maverick (Tom Cruise) che torna alla scuola Top Gun come istruttore per preparare i giovani piloti di oggi ad affrontare una missione impossibile in territorio nemico – anche se non viene mai detto quale nemico, ma in fondo uno vale l’altro – e si trova di fronte al figlio del suo vecchio amico Goose, morto in missione nel 1986 mentre faceva da navigatore proprio a Maverick.
Il transfert paterno, la rivalità generazionale e la ricerca del perdono lasciano in breve spazio al trionfo dei buoni sentimenti e al di là dei roboanti e interminabili duelli aerei, resta poco altro. Giusto la figura di Cruise, intorno alla quale secondo alcuni si coagulerebbe una riflessione profonda sul ruolo dell’icona pop e del corpo della star contemporanea come luogo dell’immaginario. In parte è vero, anche se questo Maverick ormai invecchiato ma nonostante questo ancora più bravo, bello, veloce, cool – e saggio – di tutti, oltre che poco credibile non è nemmeno il massimo della simpatia. Ma in fondo con quella faccia lì, può fare quel che gli pare…
(Capitol/Uci Orio e Curno/Arcadia Stezzano/Anteo Treviglio/Starplex Romano di Lombardia)
«Esterno notte» di Marco Bellocchio
Abbiamo già parlato qui della prima metà. Ma la miniserie di Bellocchio – che in Italia esce al cinema in due parti di tre episodi ciascuno (18 maggio e 9 giugno) e poi in tv, sulla Rai, dal prossimo autunno – a Cannes è passata tutta in un’unica proiezione di 5 ore filate. Proprio come fosse un filmone d’autore. E in effetti è qualcosa che somiglia molto di più al cinema che alla televisione «Esterno notte». Bellocchio torna sull’evento più traumatico della storia repubblicana già affrontato in «Buongiorno notte» (2003): il sequestro Moro. Lo fa ampliando le linee narrative rispetto al film del 2003 e ricostruendo la vicenda da diversi punti di vista.
I sei episodi affrontano i drammatici mesi della prigionia del leader della DC assumendo i punti di vista dei colleghi di partito di Moro, della famiglia, di papa Paolo VI e dei brigatisti. Non sempre con lo stesso rigore e la stessa coerenza narrativa, smarrendosi talvolta nell’eccessivo didascalismo o spingendosi eccessivamente nel terreno del simbolico, ma creando nel complesso una ricostruzione ricca di complessità.
La seconda parte rivela come a Bellocchio, similmente che in «Buongiorno notte», interessi soprattutto impostare la riflessione guardando dalla prospettiva delle BR. Non è un caso che «Esterno notte» in un primo tempo fosse stato pensato come una specie di biografia di Adriana Faranda, carceriera di Moro e figura iconica di quel momento storico. In effetti i momenti più intensi e rilevanti della serie sono proprio quelli in cui Faranda e compagni (soprattutto Morucci e Moretti) discutono fra loro e interagiscono con Moro arrivando alla terribile e sconsiderata decisione di infliggere e poi eseguire la condanna a morte.
Pur non mostrando il famoso “processo”, Bellocchio mette in scena l’inevitabilità e la durezza delle scelte dei brigatisti, riservando loro la parte determinante di tutto il racconto. E arrivando sino a un (doppio) finale in cui gli eventi di cronaca – sovrapposti alla fantasia di un Moro risparmiato e liberato dai suoi rapitori (come si vede nell’incipit del primo episodio) – confluiscono nell’epilogo drammatico e terribile che tutti conosciamo. E che ancora oggi mette i brividi.
(1ª parte: Conca verde/Uci Orio e Curno/Anteo Treviglio. 2ª parte: dal 9 giugno)
«Elvis» di Baz Luhrmann
Il cinema di Baz Luhrmann o lo si adora o lo si detesta, non ci sono vie di mezzo. Il regista australiano ha uno stile tutto suo – fatto di paillettes, coriandoli, lustrini, musica a non finire, movimenti vorticosi della macchina da presa e un montaggio sincopato e frenetico – che può destabilizzare oppure creare una piacevole fusione con il testo filmico, a seconda dei gusti. È così nei suoi film più celebri, da «Moulin Rouge!» (2002) a «Il grande Gatsby» (2013) ed è così anche in «Elvis». Certo, in un biopic sul più grande artista musicale del XX secolo la misura, l’austerità e la moderazione non sono esattamente gli elementi da perseguire, tuttavia il luna park visivo che Luhrmann imbastisce rischia di far apparire persino un’icona come Elvis più eccessiva del dovuto.
La vita artistica di Elvis è raccontata nel film attraverso le reminiscenze dello storico manager del cantante: il Colonnello Tom Parker (Tom Hanks). Uomo avido e spregiudicato, Parker fece senz’altro la fortuna di Elvis ma limitò anche molto il suo talento e la sua naturale istintività. Luhrmann mette in mostra come a causa delle scelte interessate e fin troppo prudenti del proprio manager Presley dovette rinunciare a molto. Come la strada del rock ‘n roll, abbandonata in favore di uno stile più family friendly, o le prese di posizione politiche contro la segregazione razziale che non ebbe mai occasione di esplicitare, o ancora la possibilità di portare la sua musica in giro per il mondo dal momento che Parker impedì sistematicamente a Elvis di organizzare un tour in Europa prediligendo i più remunerativi ingaggi in patria.
Ma come si diceva ciò su cui il regista punta maggiormente è la veste estetica del film. E allora Las Vegas diventa il centro della storia e tutto assume la forma di un grande circo (il circo peraltro è proprio il luogo da cui Parker proveniva, prima di incontrare Presley). Mentre Austin Butler, sbalorditivo per la somiglianza (più nelle movenze che nei tratti somatici) con il cantante di Memphis, garantisce momenti di assoluta emozione consentendo al regista di sovrapporre realtà e finzione nei momenti in cui, come nel finale, rimette in scena alcune delle esibizioni più iconiche – e leggendarie – di Elvis. Pelle d’oca assicurata.
(dal 22 giugno)