La battaglia che Martin Luther King combatté per i diritti civili degli afroamericani è nota, per chi scrive questo pezzo, dalle pagine studiate a scuola, dai movimentati cineforum quando uscì “Selma” nel 2014, e da quel discorso quasi imparato a memoria, “I have a dream that my four little children will one day live in a nation where they will not be judged by the color of their skin but by the content of their character” [“Ho un sogno… che i miei quattro figli un giorno possano vivere in una nazione dove non verranno giudicati in base al colore della loro pelle ma in base a ciò che la loro persona contiene”, ndr].
Non mi sono mai chiesta chi fosse l’uomo oltre la leggenda. Forse perché sono nata tardi, e Martin Luther King l’ho studiato solo tra i banchi. Forse perché sono le azioni per cui lottiamo a definire chi siamo, e quelle di King, Nobel per la pace 1964, sono state talmente grandi da non aver bisogno di commento.
Per raccontarci Martin Luther King, Sam Pollard (già vincitore di un Emmy Award e nominato agli Oscar) sceglie una prospettiva del tutto inusuale. Quella dell’allora direttore dell’FBI John Edgar Hoover e di chi insieme a lui fece di tutto per opporsi al leader afroamericano. Attraverso filmati d’archivio, fotografie, documenti resi accessibili dal Freedom of Information Act, testimonianze d’epoca e contemporanee (come quella dell’ex direttore dell’FBI James Comey, dell’ex agente Charles Knox o di Clarence Jones, ex consigliere personale, scrittore di discorsi e amico intimo di King), “Martin Luther King vs FBI” indaga e denuncia l’intensa attività di spionaggio che l’agenzia federale perseguì nei confronti degli attivisti di colore e del loro leader. E la paura dell’avvento di “un Messia nero” da cui Hoover non si liberò mai.
La “verità”, con ogni mezzo
Insieme, non li vediamo mai. Tra Edgar Hoover e Martin Luther King – che il direttore dei servizi segreti definì, solamente due giorni dopo la Washington Freedom March, “il negro più pericoloso d’America” – ci fu un solo faccia a faccia. “MLK” lo spaventava, e non solo per il suo carisma e il suo potere di smuovere le masse. Ma anche per i suoi rapporti con Stanley Levison, avvocato ebreo bianco vicino al Partito Comunista. L’FBI, ci ricorda il documentario, nasceva per opporsi a due grandi nemici: “il crimine e il comunismo”.
Per diffamare King, Hoover utilizzò ogni mezzo a propria disposizione. Cominciò a intercettarne le telefonate, una volta ottenuta l’autorizzazione da parte del ministro della Giustizia. William Sullivan, capo della divisione dell’FBI COINTELPRO, fece installare cimici e telecamere nelle stanze d’albergo dove alloggiava l’attivista. Dalle registrazioni, emerse un uomo ben diverso da quello che la gente si aspettava. Martin Luther King coltivava infatti numerose relazioni extraconiugali. Più che sui suoi legami con Levison e il Partito Comunista, l’FBI cominciò allora a concentrarsi sugli scandali della vita privata di King e su quell’uomo “moralmente inadatto a essere un leader” che un po’ rispecchiava l’idea dei “neri dalla sessualità perversa e malata” con cui erano stati educati Hoover e i suoi (e che ancora – Pollard su questo è molto chiaro – permea buona parte del tessuto della storia americana).
L’agenzia federale assunse dei giornalisti affinché scrivessero articoli diffamatori e registrò gli incontri sessuali del leader politico. Nel 1968, l’FBI mandò a King una lettera anonima consigliando all’attivista di suicidarsi e recapitando il nastro con le registrazioni di un incontro intimo tra il leader e una delle sue amanti alla moglie Coretta.
Le registrazioni degli appuntamenti segreti di King sono assenti nel film: nel 1977, un giudice ordinò all’FBI di consegnare i nastri all’archivio nazionale, dove sono stati sigillati. I primi nastri verranno desecretati nel 2027. Non aspettatevi quindi rivelazioni sensazionali sulla doppia vita di uno degli uomini simbolo del nostro tempo. Siamo di fronte a un docufilm provocatorio, capace di suscitare una riflessione dopo l’altra. A cominciare dal concetto di privacy .
“Signor Hoover, fino a dove si estende il vostro uso delle intercettazioni?” chiede il Senatore Keating, conduttore di un programma televisivo, al direttore dell’FBI. “L’FBI è autorizzato a utilizzare le intercettazioni telefoniche solo nei casi riguardanti il tradimento, attività sovversive, sabotaggio e spionaggio. Posso dirvi che in questo momento ci sono meno di 90 intercettazioni in tutti gli Stati Uniti”, risponde Hoover. È giusto che un’agenzia governativa scavi così a fondo nella vita privata di un uomo? Ed è giusto che i dettagli più intimi della vita privata di qualcuno vengano divulgati? E fino a che punto il pubblico deve conoscere l’uomo, al di là del mito?
Non so nulla di come lavora l’FBI, mi occupo però di comunicazione. E su temi quali il rispetto o la violazione della privacy sono stata interrogata fin dal primo giorno del mio master in Giornalismo a Londra. La questione è complessa, le risposte che mi sono state date negli anni di corso poco esaustive: “è lecito rivelare i dettagli privati di una figura pubblica quando questi dettagli hanno un impatto sulla vita collettiva”. Ora, quello che gli inglesi chiamano “public interest” è, a mio parere, altrettanto difficile da definire.
American dream
Alla fine del film Sam Pollard chiama in causa professori, storici, politici contemporanei. Secondo alcuni, i nastri con le registrazioni non dovrebbero mai vedere la luce. Qualcun altro crede invece che ciò che potrebbe venire rivelato nel 2027 non avrà alcun impatto sull’eredità di Martin Luther King. “Sarà interessante studiare la reazione della gente. Non credo che i nastri porteranno a un ripensamento di King come figura politica”, afferma Beverly Gage, docente presso l’Università di Yale, “ma probabilmente ci darà un’idea più complicata di lui come essere umano”. “C’è sempre stata una tensione irrisolta tra ciò che siamo, chi diciamo di essere e chi vogliamo essere. Ma c’è sempre stato l’entusiasmo all’idea di cambiare il mondo”, continua Andrew Young, pastore protestante e diplomatico. Clarence Jones rivolge invece a tutti una domanda: il fatto che Martin Luther King abbia avuto relazioni extraconiugali lo rende un leader dei diritti civili peggiori di quanto è stato? Forse no, mi verrebbe da dire. Lo rende solo un uomo imperfetto, come lo siamo tutti.
Il mondo ricostruito da Sam Pollard non è un mondo in bianco e nero. Il regista lo mette in chiaro alla fine del film: “L’FBI non era un’agenzia ribelle, ma una parte fondamentale dell’ordine politico americano”. Hoover non era il cattivo, ma si faceva interprete della paura diffusa che gli afroamericani potessero danneggiare il modo in cui il Paese voleva vedere sé stesso. Insomma, al di là di Hoover e King ci sono due interpretazioni diversi del grande sogno americano. Quel sogno americano che più che di idee è fatto di persone. E le persone sbagliano, continuamente.
Miglior Documentario d’Archivio al Critics’ Choice Documentary Awards 2020 e nominato nella short list degli Oscar 2021, “Martin Luther King vs FBI” arriva nelle sale italiane con Wanted Cinema e il patrocinio di Amnesty International Italia. Sarà proiettato stasera presso l’Auditorium di Piazza della Libertà; oggi, domani e mercoledì presso l’Uci Cinemas di Orio.