“Martin Eden” (1909) è uno dei romanzi più popolari di Jack London. Intriso di dottrine filosofiche, teorie politiche e ideologie, come molta della letteratura dello scrittore americano è anche un’opera ricca di autobiografismo e carica del vitalismo autodistruttivo che rese London uno degli scrittori più celebri della sua epoca. Ma è anche un romanzo del suo tempo, pieno di cose che hanno scritto la Storia del primissimo Novecento e che si fondono con una struttura sociale e culturale fortemente legata agli Stati Uniti, in cui la storia è ambientata.
E allora come fa Pietro Marcello, talentuoso regista casertano in passato documentarista, a trasportare il racconto di London a Napoli? Il salto sembra davvero vertiginoso, eppure non così azzardato come potrebbe sembrare.
Il film (in concorso a Venezia 76) racconta infatti la storia di un uomo, Martin Eden appunto (interpretato da Luca Marinelli), che nei primi anni del XX secolo torna a Napoli dopo aver fatto il marinaio per molto tempo. Qui conosce per caso Elena, una ragazza dell’alta borghesia che è colta, educata e studia all’università. Innamoratosi a prima vista Martin cerca di colmare il divario culturale che lo separa dalla ragazza. Lui, che ha concluso gli studi dopo la quinta elementare, si convince che solo coltivando la propria erudizione potrà conquistare completamente la ragazza, nonostante questa gli dimostri di ricambiare il sentimento già dai primi istanti.
Decide così di diventare scrittore. Per i successivi due anni si dedica assiduamente allo studio e alla scrittura, ma in breve un’acquisita consapevolezza delle leggi dell’uomo e della natura, le iniziali sfortune con gli editori, il repentino successo e una temperie politica e sociale bollente lo fagociteranno, decretando prima il disfacimento della sua relazione con Elena e poi quello personale.
La differenza sostanziale fra il film e il romanzo non è solo lo spostamento dell’azione dalla California all’Italia, ma anche il dislocamento temporale. Se Marcello mette in scena una Napoli che “potrebbe essere una qualsiasi città, ovunque nel mondo” come ha sottolineato lui stesso, si può dire la medesima cosa anche per quanto riguarda il tempo della storia. Inserito soltanto per esigenze narrative negli anni precedenti la Prima guerra mondiale – allo scoppio della quale termina – il film non rispetta volutamente alcuna verosimiglianza storica riempiendo lo spazio di oggetti, arredi, suppellettili e architetture, stili, design appartenenti a decenni anche molto successivi.
L’intento è quello di comporre un racconto che non sia soltanto universale in senso generico, ma che abbracci un periodo storico più ampio di quello a cui rimanda il romanzo. Ovvero il Novecento. Il secolo breve che diventa il “luogo” dal quale si originano e scaturiscono le battaglie per l’emancipazione sociale, le lotte di classe e le grandi rivoluzioni.
Il nocciolo del film sta proprio dentro questo tentativo, che lentamente diventa un’idea, di far combaciare la Storia del Novecento con la storia privata del protagonista. Facendo della sorte di Martin una specie di destino comune a tutti. Nella sua sconfitta si specchia di fatto il fallimento di un mondo che non è riuscito a vincere le proprie battaglie e che ha visto gli ideali in cui credeva. E in questo senso vanno lette, forse, anche le scelte estetiche e formali che Marcello applica al film. Come l’inserimento di elementi extra cinematografici (filmati d’epoca) o una ricostruzione storica che soprattutto negli esterni punta a mettere in scena l’Italia della fine degli anni cinquanta. Cioè quell’Italia pre-boom economico ancora pervasa dalla miseria e dal divario sociale che avrebbe presto abbandonato, insieme alla povertà, anche una naïveté impossibile da recuperare. Esattamente come Martin. Che con l’erudizione, la cultura e il denaro perde l’entusiasmo, la voglia di lottare e quella di amare. Facendo eco a un messaggio che non vuole, banalmente, alludere a una sorta di innocenza perduta nei confronti di un mondo passato (cui il cognome del protagonista in qualche modo rimanda), ma piuttosto a una nuova consapevolezza che costringe a fare i conti con un presente diverso da come immaginato.
Nonostante adatti un romanzo vecchio di un secolo e rifletta su una storia passata Martin Eden è un film estremamente moderno. Che guarda la Storia in faccia e parla della contemporaneità in maniera sottile. Perché attraverso il racconto invita a riflettere sull’inconcepibilità del periodo storico nel quale viviamo. I primi rumori del fascismo che Marcello tratteggia nel finale, così come il pervadente anti-intellettualismo simboleggiato dai libri che bruciano o il superomismo e il culto dell’eroe che portano dritto alla guerra non sono episodi che si riducono nella volontà del regista di trovare uno spavaldo paragone con l’oggi, ma nell’intenzione di descrivere un mondo sull’orlo della catastrofe che deve mettere in guardia.
La sfiducia nella cultura, il disprezzo delle élite per i subalterni, un’interpretazione errata delle dottrine sociali da parte dei liberali e una globale insoddisfazione per le politiche dei governi delle grandi nazioni che il film descrive portarono, fra le altre cose, alla catastrofe del conflitto bellico che sancì la fine dell’epoca moderna.
E se i tempi oggi non sono certamente gli stessi, i pericoli sono altri e i rischi sono senz’altro minori, certi sentimenti sono in larga misura ugualmente rintracciabili. In un mondo che non ha speranza né consapevolezza di sé, del proprio ruolo nella Storia e del futuro, che flirta con i populismi e smarrisce ogni ordine, ogni idea e ogni forma d’amore non può che mettere i brividi.
Martin, che è un antieroe destinato all’autodistruzione, sta forse lì a dirci che questo mondo, se perde la voglia di combattere, proprio come lui, non può che finire per soccombere per primo proprio a se stesso: vittima del proprio negativismo, della propria ambizione e della propria cecità.