Da Michael Mann a Paola Cortellesi, da Woody Allen ad Aki Kaurismäki. Fra recuperi doverosi e prime visioni imperdibili, ecco i nostri consigli.
«Ferrari» di Michael Mann
Da uno dei massimi autori del cinema americano degli anni Ottanta e Novanta, il film su Enzo Ferrari che in Italia non è mai stato fatto. Non si tratta di un vero e proprio biopic e anche se la figura del “Drake” (interpretato da Adam Driver) è centrale, la storia si concentra su un momento particolare della vita di quest’ultimo e della sua famiglia (allargata). Ovvero il 1957, l’anno dell’ultima, tragica edizione competitiva della «Mille Miglia», che venne definitivamente soppressa all’indomani dello spaventoso incidente di Guidizzolo (dove morirono undici persone fra cui cinque bambini). Il film, che si conclude proprio con la messa in scena di questa terribile tragedia, è in realtà il racconto della personalità complessa e ruvida del patron del marchio automobilistico più famoso del mondo.
Ferrari, tormentato dalla morte del figlio Dino (scomparso nel 1956 per le conseguenze della distrofia di cui aveva sofferto sin da piccolo), in crisi con la moglie Laura (Penélope Cruz) e sempre più in difficoltà a gestire il rapporto affettuoso con l’amante Lina e il figlio illegittimo Piero, si trova anche a dover fronteggiare il rischio di fallimento del proprio marchio, vedendosi costretto a trattare con la Fiat di Gianni Agnelli per garantirsi la sopravvivenza.
Il carattere eccentrico e la durezza apparentemente inscalfibile con cui Ferrari è descritto lo rendono un personaggio da romanzo, come se la leggenda che ammanta la sua figura avesse la meglio su qualsiasi tentativo di rappresentazione. E in effetti «Ferrari» è un film che affastella leggende (e stereotipi) sull’Italia e sul Made in Italy (la moda, la cucina, l’opera, il calcio, la famiglia, l’impulsività e le passioni irrefrenabili dei personaggi) dai quali finisce per restare schiacciato. Questo nonostante l’intenzione di Mann di fare di Ferrari una figura tragica, sospesa fra l’ambizione autodistruttiva della velocità e della competizione e quella profondamente umana – e atavica – della volontà (poi riuscita) di scrivere il proprio nome nella storia e fondare un mito immortale.
(Uci Cinemas Orio)
«Un colpo di fortuna – Coup de Chance» di Woody Allen
Il cinquantunesimo film di Woody Allen è un piccolo gioiello. Ennesima variazione su uno dei temi alleniani per eccellenza come quello della colpa (e del rapporto fra castigo e redenzione), «Un colpo di fortuna –Coup de Chance» è ambientato a Parigi e racconta di Fanny e Jean, marito e moglie, lei giovane impiegata di una prestigiosa casa d’aste e lui ricchissimo faccendiere dal passato oscuro. La loro vita agiata e apparentemente perfetta fatta di weekend in campagna con gli amici, ricevimenti e cene eleganti, inizia a incrinarsi quando Fanny – in realtà un poco annoiata dalla propria vita – incontra per caso Alain, un vecchio compagno del liceo ora poeta e scrittore dall’animo bohémien, con cui inizia una relazione.
I sospetti di Jean e i dubbi sul proprio matrimonio con Fanny contribuiscono a far precipitare la situazione e – nonostante l’aiuto della madre di Fanny, donna appassionata di gialli e un po’ sbadata, ma in realtà l’unica a capire cosa stia succedendo veramente – spingono la vicenda fino alle conseguenze più tragiche. Il tradimento come trasgressione borghese, l’ambizione e la frustrazione di conquistare il rispetto di una classe sociale alla quale non si appartiene, l’omicidio come salvaguardia dello status quo, il caso (la fortuna evocata dal titolo) come unico giudice delle azioni dei personaggi... esattamente come in «Match Point» (2005) o, andando più indietro, in «Crimini e misfatti» (1989) due grandi capolavori del cinema di Allen di cui «Un colpo di fortuna» è appunto una nuova versione leggermente variata.
Il regista, che filma Parigi facendola sembrare Manhattan e descrive lo spazio con morbidi carrelli e un susseguirsi di piani-sequenza (splendido l’incipit in cui Fanny e Alain si incontrano casualmente per strada), si muove fra impegno e leggerezza e crea un’opera sofisticata, mischia atmosfere jazz, cultura europea, Dostoevskij e Simenon, regalandoci una delle sue opere migliori degli ultimi tempi. E a ottantotto anni è tutt’altro che un dettaglio.
(Uci Cinemas Orio, Anteo Treviglio)
«C’è ancora domani» di Paola Cortellesi
A quasi due mesi dall’uscita in sala lo possiamo dire con certezza: «C’è ancora domani» è ufficialmente il caso cinematografico dell’anno. Del tutto inaspettatamente – anche da parte degli autori – il film d’esordio di Paola Cortellesi quest’anno ha incassato più di qualsiasi altro film italiano (è secondo solo a «Barbie») ed è il maggior riscontro di pubblico del cinema di casa nostra dai tempi di «Tolo Tolo» (2020) di Checco Zalone.
Quando un film incontra un successo così unanime, il valore specificamente cinematografico passa spesso in secondo piano e la riflessione si sposta più sul senso che l’opera assume all’interno della società e della cultura in cui è germogliata. E allora si può dire con certezza che «C’è ancora domani» sia il film giusto al momento giusto. Un’opera che affronta alcuni dei temi più scottanti dell’Italia di oggi, li mette al vaglio degli spettatori e si inserisce perfettamente in uno dei dibattiti più urgenti della nostra contemporaneità. Come quello sul patriarcato, sulla differenza di genere e sulle questioni sociali e culturali connesse. Con il merito indiscusso di aver contribuito a svegliare un paese ancora troppo indifferente e assopito rispetto a istanze tanto rilevanti.
Cortellesi trova una chiave espressiva efficacissima per raccontare tutto questo, ricorrendo a una storia ambientata nel passato (metà anni ’40, immediato dopoguerra), fotografata in bianco e nero e con un gusto estetico, una confezione e una caratterizzazione dei personaggi che richiamano esplicitamente l’esperienza neorealista. Una serie di codici linguistici, cioè, che fa presa sul pubblico italiano riconnettendolo da un lato con l’età d’oro del nostro cinema e dall’altro a un immaginario condiviso, un’eredità storica che, pur soggetta a un revisionismo culturale molto profondo, scatena un misto di nostalgia e identificazione. L’ironia e lo stile contemporanei con i quali sono cucite le riflessioni più crude e riferite al presente fanno il resto. La ricetta funziona, piace e incassa (parecchio). Aspettiamoci una folta schiera di imitazioni!
(Uci Cinemas Orio e Curno, Arcadia Stezzano, Multisala Starplex Romano di Lombardia, Anteo Treviglio)
«Adagio» di Stefano Sollima
Dopo i due film “americani” («Soldado», 2018 e «Senza Rimorso», 2021) Stefano Sollima torna a girare un film in Italia. E si tratta di un film tipicamente “sollimiano”, che riprende i temi, le atmosfere e le ambientazioni di «Romanzo Criminale – La serie» (2010-2012) e «Suburra» (2015) – dei quali sarebbe una sorta di ideale conclusione. Siamo quindi nel puro cinema di genere – tra poliziesco e gangster movie (o “polar” come si dice in Francia) – calati in un racconto piuttosto tradizionale e senza particolari invenzioni o guizzi narrativi. In una Roma estiva che brucia per il caldo e per le fiamme di diversi roghi che cingono d’assedio la città, si consuma uno scontro tra due diversi tipi di malavita: una fatta di carabinieri corrotti e l’altra di superstiti della banda della Magliana. Tutt’intorno giochi di potere, ricatti e vendette in cui si trova coinvolto Manuel, figlio sedicenne di uno dei vecchi gangster della Magliana, costretto a fuggire e a nascondersi nel corso di 24 ore che gli cambieranno l’esistenza per sempre.
«Adagio» non è un film perfetto: ha degli evidenti buchi di sceneggiatura, un impianto narrativo sterile e delle soluzioni drammaturgiche implausibili (anche per un film di genere). Eppure è un’opera girata come nessun’altra nel cinema di genere italiano: essenziale, asciutta, con un ritmo straordinario e pochissimi fronzoli o manierismi estetici. A Sollima interessa soprattutto descrivere un mondo in decomposizione di cui Roma sembra l’ultima città sulla terra a un passo dall’apocalisse. Per questo sceglie di farla somigliare a una metropoli americana, mostrandola solo attraverso le periferie, gli snodi viari, le tangenziali e il traffico soffocante che la contraddistingue, come in una distopia. Del resto è tutto il film a essere un’elegia (o un adagio) sulla fine, un racconto di (anti)eroi sconfitti, malandati e ultimi testimoni di un mondo estinto e di un tempo che esiste solo nei loro ricordi. Pierfrancesco Favino, Toni Servillo e Valerio Mastandrea letteralmente trasfigurati e invecchiati dal trucco sembrano quasi fantasmi, abitanti di uno spazio in dissolvenza e destinati a scomparire. Proprio come tutto il resto che, lentamente, si tramuta in cenere.
(Capitol, Uci Cinemas Orio e Curno, Arcadia Stezzano, Multisala Starplex Romano di Lombardia, Anteo Treviglio, Cinema Iride Costa Volpino)
«Foglie al vento» di Aki Kaurismäki
Il cinema di Aki Kaurismäki è unico nel suo genere. L’autore finlandese da anni confeziona film molto peculiari, riconoscibili e simili fra loro. Film caratterizzati da un impianto formale estremamente artificiale e da una costruzione estetica volutamente antinaturalistica, elaborata in teatri di posa, caratterizzata da una recitazione per lo più monocorde e da trame esilissime. L’intenzione è quella di usare gli strumenti base del cinema classico per confezionare opere con una forma tradizionale che guardino con occhio disincantato, ironico e velatamente critico la società e il mondo contemporanei.
«Foglie al vento» non fa eccezione e pur raccontando una storia d’amore che germoglia dalla storia di due solitudini – un uomo e una donna si incontrano, si innamorano e dopo alcune vicissitudini e impedimenti finiscono per stare insieme – dice in realtà molto di più, dando risalto ai dettagli e a tutto ciò che sta intorno ai personaggi e alle loro azioni. Ovvero gesti, sguardi, dialoghi e poi luoghi, atmosfere, personaggi di contorno che raccontano un mondo che sembra quasi di fantasia, ma che è invece il nostro mondo come il regista vorrebbe che fosse. E cioè un luogo profondamente umano (e umanista) dove chi resta indietro – come i protagonisti che a un certo punto si trovano entrambi senza lavoro – trova l’aiuto di qualcuno o dove l’amicizia, l’amore, l’altruismo sono, pur nella loro semplicità, emozioni autentiche e imprescindibili.
Il microcosmo che il regista costruisce, nella sua apparente asetticità, è uno spazio di liberazione dei sentimenti che ha l’aspetto di un set cinematografico. E l’amore per il cinema – che si respira ovunque, nelle citazioni più esplicite e in quelle nascoste, nei riferimenti narrativi e negli spazi (gli appuntamenti fra i protagonisti sono sempre al cinema) permea da ogni inquadratura. Perché Kaurismäki è uno che crede nelle (sue) persone e nel potere salvifico dell’arte (cinematografica). E che come il suo cinema non si arrende all’orrore e all’indifferenza. Nemmeno quando questi sentimenti sono lì, presenti e – come la guerra in Ucraina che i notiziari radiofonici raccontano per tutto il film – non possono essere ignorati.
(Giovedì 21 dicembre ore 20.45, Conca Verde)