Il “Leone d’argento – Gran premio della giuria” alla Mostra del cinema di Venezia è il premio per il secondo posto. E proprio come accade nelle grandi manifestazioni sportive arrivare secondi, per quanto possa essere prestigioso – e a Venezia lo è eccome – è sempre un po’ una sconfitta.
Il “Gran premio” quest’anno è andato a “L’ufficiale e la spia” di Roman Polanski, ma è un secondo posto un po’ diverso da tutti gli altri secondi posti della storia della Mostra. Perché mai come in quest’ultima edizione sappiamo con certezza che il film designato per il Leone d’oro era proprio quello di Polański e che a causa di tutta una serie di circostanze è stato relegato – appunto – al secondo posto.
Lucrecia Martel, che è una straordinaria regista argentina, forse meno conosciuta dal grande pubblico e più nota in ambito festivaliero, era la presidente della Giuria della Mostra di quest’anno. Sin dal momento in cui erano stati annunciati i titoli in competizione aveva manifestato il proprio malumore rispetto alla presenza del film di Polański.
Il motivo riguarda l’antica accusa per molestie sessuali ai danni di una ragazza minorenne rivolta al regista nel 1977, quando risiedeva negli Usa, reato per il quale il titolare di “Chinatown” aveva già scontato quaranta giorni di carcere – pena che secondo le autorità giudiziarie statunitensi sarebbe stata insufficiente per estinguere il reato: per questo sulla testa di Polanski pende tutt’ora un mandato di cattura internazionale.
Ma al di là delle questioni giudiziarie ciò che Martel contesta al collega è il fatto di essere stato autore di un abuso sessuale ai danni di una donna. A prescindere dal fatto che siano passati più di quarant’anni e che la vittima stessa abbia considerato il caso chiuso. Martel ha dichiarato di non riuscire – e di non volere – separare l’uomo dall’opera e ha pertanto disertato sia la proiezione ufficiale del film (che ha visto in sala con la stampa) che il relativo gala.
Quando poi, secondo quanto si è appreso da numerose fonti, la regista argentina si è trovata ad assegnare i premi insieme ai colleghi della giuria, ha dovuto far fronte a un pressoché unanime schieramento in favore di “L’ufficiale e la spia”, film al quale – non c’è bisogno di sottolinearlo – Martel non avrebbe mai assegnato il Leone d’oro. Un nodo quasi insuperabile che solo dopo una lunghissima mediazione ha portato il risultato che tutti conosciamo: Leone d’oro a “Joker” – altro film per nulla amato dalla presidentessa – e Gran premio a Polanski. Con buona pace della democrazia.
Il pasticcio non riguarda tanto il pregiudizio nei confronti di Polanski o la mancata vittoria (si sa che leoni e leoncini lasciano il tempo che trovano). Quanto l’avere dimostrato come ormai i festival cinematografici siano soggetti a sistemi di valori arbitrari, che trasformano le kermesse in territori di caccia alle streghe e agli stregoni. I processi non vengono più fatti allo stato dell’arte (esercizio al quale i festival sono deputati), ma alle intenzioni e al modo in cui ognuno di noi guarda, pensa e agisce intorno e al di fuori dei film. Un crinale molto pericoloso che rischia di compromettere la credibilità di un festival oltre che l’assegnazione di qualche premio.
La premessa è assolutamente doverosa accostandosi a un film come “L’ufficiale e la spia”, perché affronta, seppur in forma di metafora, proprio tutti i temi che abbiamo sinteticamente esposto fin qui, al punto da diventare una pellicola dai contorni profetici.
La storia è quella del celeberrimo affaire Dreyfus, cui il titolo originale, “J’accuse”, rimanda in maniera più esplicita. Uno scandalo epocale nella Francia della fine del XIX secolo che in qualche modo è diventato l’evento simbolo di tutte le discriminazioni razziali del mondo moderno.
Come è noto l’ufficiale dell’esercito francese di origine ebraica Alfred Dreyfus nel 1895 venne condannato alla deportazione a vita in seguito all’accusa di cospirazione e spionaggio ai danni dello Stato. Approfondimenti, revisioni e ulteriori indagini negli anni successivi – anche per merito di una enorme presa di posizione dell’opinione pubblica di allora – metteranno in luce non solo la falsità di tutte le accuse, ma anche la profonda natura antisemita alla base delle stesse. Nonostante la liberazione e reintegrazione nell’esercito di Dreyfus, una completa riabilitazione del suo nome – almeno in vita – non avverrà mai.
Il film – tratto dal romanzo omonimo di Robert Harris, anche co-sceneggiatore – osserva il caso dal punto di vista del tenente George Picquart, ex comandante di Dreyfus, chiamato a presiedere il controspionaggio poco dopo la proclamazione della condanna e autore di un attento riesame dei documenti e delle prove relative al processo. Sarà la lunga e ostinata battaglia di Picquart per la verità a rendere l’affaire un caso nazionale e a muovere le coscienze di cittadini, artisti e intellettuali fino a una problematica revisione del processo (a tal proposito non va dimenticato il famoso J’accuse di Émile Zola).
La Storia diventa dunque per Polanski l’occasione per parlare del mondo contemporaneo e per riflettere non solo sui concetti di discriminazione e intolleranza, che lui ebreo scampato ad Auschwitz (dove morì sua madre) si porta addosso da sempre, ma anche su un sistema di fake news, pregiudizi e processi sommari che sembrano essere il metro su cui si misura l’agire sociale dei tempi in cui viviamo.
Il suo Dreyfus, che rimane per quasi tutto il film in disparte, è un uomo vittima degli eventi, superbo e adombrato a causa di un destino avverso. Conscio fino alla fine dei torti subiti e fino alla fine impossibilitato a ottenere giustizia. Vittima senza colpa e senza redenzione.
Il regista illustra questo mondo dominato da corruzione, reticenza e pregiudizio con i toni cupi e lividi di un digitale che sembra ricalcare le cromie della pittura dell’epoca e tende a svuotare di retorica e manierismi la messa in scena. L’intento è quello di far emergere anche a livello visivo le sembianze di un’epoca buia in cui domina un generale sonno della ragione. Un ritratto oscuro nel quale però si intuisce il parziale conforto di uno sguardo positivista.
La fine dell’epoca moderna che sarà sancita di lì a poco dallo scoppio della Prima guerra mondiale e l’avvento di un medium rivoluzionario come il cinema (che guarda caso nasce proprio nello stesso anno dello scoppio dell’affaire) testimoniano anche la nascita di un nuovo modo di vivere, di pensare e di agire. E di un secolo, il Novecento, che al netto degli orrori dei conflitti bellici e dei totalitarismi, riabiliterà la figura di Dreyfus sino a renderlo un simbolo.
Se quindi una speranza esiste, nello sguardo di Polanski, è rivolta ancora una volta al futuro. Fuori dai paludamenti e dalle idee distorte di una frangia della società che oggi non è certo retrograda e reazionaria come quella di un secolo fa. Ma che è forse, soprattutto di questi tempi, altrettanto ombelicale, moralista e inesorabilmente destinata a estinguersi.