Per una primavera d’autore, vi consigliamo quattro film imperdibili, disponibili nelle sale dei cinema bergamaschi e su Amazon Prime. Ce n’è per tutti i gusti!
«La zona di interesse» di Jonathan Glazer (h3)
Fresco vincitore dell’Oscar come miglior film internazionale (e miglior sonoro) e già insignito del Grand Prix (cioè il premio più importante dopo la Palma d’oro) a Cannes 2023, «La zona d’interesse» è uno dei film più apprezzati della stagione. Tratto dal romanzo omonimo di Martin Amis, racconta della vita agiata e spensierata della famiglia di Rudolf Höss, comandante del campo di concentramento di Auschwitz, durante alcuni mesi a partire dall’estate del 1942. L’elegante villa in cui risiedono Höss, la moglie Hedwig e i loro cinque figli confina con il lager. È separata da questo soltanto da un muro, elemento che non impedisce alla famiglia, agli ospiti e alla servitù di percepire continuamente la presenza del campo, che si manifesta sottoforma di suoni e rumori (spari, grida, cani che abbaiano), nuvole di fumo che oscurano il cielo o l’acqua del fiume che improvvisamente si tinge di grigio cenere.
«La zona di interesse» è un’opera sull’indifferenza e sulla “banalità del male”, un film che riflette sul senso della memoria e che mette lo spettatore di fronte a temi fondamentali e attualissimi del mondo contemporaneo. Le immagini di muri, confini e filo spinato che il film mostra sembrano infatti riverberare al presente: sistemi di disgregazione e esclusione a cui tutti siamo tristemente abituati. Ed è forse proprio questa abitudine, questa incapacità sempre maggiore a indignarsi, stupirsi e percepire realmente il male per quello che è a portare verso l’indifferenza e la banalità cui il film rimanda. Ma quella di Glazer è anche una profonda riflessione estetica sulla rappresentazione del male e su come percepiamo le immagini, le dotiamo di significato e le mettiamo in relazione alla Memoria. Le riprese della villa degli Höss che sembrano fatte con camere di sorveglianza, le immagini virate al negativo di cui sono protagonisti i bambini e l’uso così attento del “fuori campo”, sono tutti dispositivi estetici che hanno la funzione di rappresentare l’irrappresentabile (e cioè l’orrore dei campi) senza cedere all’osceno e al voyerismo. Un raro esempio di cinema contemporaneo dove forma e narrazione sono perfettamente consustanziali l’una all’altra.
(Lo schermo bianco, Auditorium di Piazza Libertà, UCI Cinemas Curno e Orio, Arcadia Stezzano, Anteo Treviglio, Starplex Romano di Lombardia)
«Un altro ferragosto» di Paolo Virzì
Ventott’anni dopo «Ferie d’agosto» (1996) – uno dei film capaci di riscrivere e svecchiare la commedia italiana dopo la crisi degli anni Ottanta e Novanta – Paolo Virzì torna ai luoghi, ai personaggi e alle storie di quel periodo straordinario, cercando di resuscitare la verve del suo cinema di un tempo. Ancora Ventotene e ancora le due famiglie dei Molino e dei Mazzalupi, arrivate da Roma per passare il ferragosto e costrette a trovarsi vicine di casa. Diversi per estrazione, credo politico, cultura, interessi e condizione sociale, i membri delle due famiglie entrano continuamente in contatto e proprio come trent’anni fa si scontrano, litigano, esprimono i loro odio reciproco, ma qua e là creano anche qualche legame clandestino. Alcuni di loro non ci sono più – come i due cognati della famiglia Mazzalupi, interpretati da Ennio Fantastichini e Piero Natoli, scomparsi entrambi prematuramente – e altri stanno per andarsene, come Sandro Molino (Silvio Orlando), affetto da un male incurabile e venuto a Ventotene per l’ultimo saluto a famiglia e amici. Ed è in effetti un film che parla di morte quello di Virzì, non solo quella biologica – che diventa giocoforza una metafora – ma anche e soprattutto quella che sta nelle cose. Nelle vecchie ideologie per esempio.
Se il film del 1996 aveva come tema il feroce scontro fra la sinistra disastrata dopo la svolta della Bolognina e il berlusconismo in un continuo confronto ideologico, qui non esiste più alcuna dottrina politica che abbia un valore identitario: né quella di Sandro, che vive la nostalgia di un mondo che sarebbe potuto essere e non è stato, sognando i fantasmi della resistenza (Ventotene fu uno dei luoghi dove vennero mandati al confino decine di intellettuali di sinistra durante il ventennio fascista, fra cui Sandro Pertini), né quella dei Mazzalupi, che ospitano parlamentari della destra di governo e ricordano con fierezza i gerarchi mussoliniani, ma sono spinti solo dall’opportunismo e dalla sete di ricchezza. In definitiva, Virzì sembra aver perso la speranza, anche quella per i giovani – i figli, bambini nel ‘96 oggi adulti, non hanno alcuna battaglia da combattere e pensano solo a campare – e per il paese che verrà. E forse ammette che anche il suo cinema e la sua commedia, un tempo brillanti e intelligenti, non abbiano poi più molto da dire...
(Capitol, UCI Cinemas Curno e Orio, Arcadia Stezzano, Anteo Treviglio)
«Dune – Parte due» di Denis Villeneuve
Tre anni fa, quando uscì il primo capitolo, la Warner – produttrice del film – annunciò che avrebbe messo in cantiere il sequel solo se gli incassi sarebbero stati soddisfacenti. «Dune» (2021) guadagnò oltre 400 milioni di dollari e allora ecco qui la seconda parte. Al di là delle questioni puramente economiche, questa storia la dice lunga sulla scarsa fiducia che l’adattamento del romanzo di Frank Herbert suscitava nei corridoi di Hollywood. Sia per via del lavoro disastroso fatto da Lynch e De Laurentiis negli anni Ottanta con la prima trasposizione cinematografica, sia per il fatto che echi del libro di Herbert sono presenti già in un’enorme quantità di film di fantascienza degli ultimi quarant’anni (dalla saga di «Star Wars» in giù).
Villeneuve invece, autore a suo agio con la fantascienza e regista super-cool, soprattutto tra le giovani generazioni, è riuscito in un’impresa che sembrava al limite dell’impossibile. E questa seconda parte, che ricomincia esattamente dove era finita la prima, ribadisce la grande sensibilità estetica del regista canadese, abilissimo nel creare un universo grafico – ancora prima che narrativo – assolutamente contemporaneo e a rendere dialettico anche un paesaggio piatto come quello del deserto in cui il film è quasi interamente ambientato. Un universo decisamente più spoglio di quello del film precedente, in cui il paesaggio fa eco al percorso introspettivo dei protagonisti e anticipa l’esplodere della vendetta che caratterizza il finale.
Come nel primo capitolo è l’esperienza sensoriale (da fare obbligatoriamente in sala) a caratterizzare la messinscena, con le musiche di Hans Zimmer come sfondo pressoché costante e il sonoro a sovrastare in maniera incessante le lunghe sequenze d’azione. Dal punto di vista narrativo (elemento che sembra interessare meno a Villeneuve), per la verità non c’è molto più di quanto non sapessimo (dal film di Lynch, dal primo capitolo e in generale dall’epica di Herbert che ha fatto scuola) e probabilmente il côté spirituale e new age (molto anni Settanta) del racconto andrebbe aggiornato al presente, spingendo magari in una direzione più ambientalista o umanista, al passo con i tempi. Ma in fondo il successo globale di «Dune» conferma che va bene così, mentre il terzo capitolo – su cui ci sono già enormi aspettative – è già stato annunciato.
(UCI Cinemas Curno e Orio, Arcadia Stezzano, Anteo Treviglio, Starplex Romano di Lombardia)
«American Fiction» di Cord Jefferson
Vincitore della miglior sceneggiatura non originale agli ultimi Oscar, «American Fiction» è un piccolo film – apparentemente senza troppe pretese (lo si capisce anche per il fatto che da noi sia arrivato direttamente su piattaforma, senza passare in sala) – che sta invece raccogliendo consensi un po’ dappertutto. Si tratta di una comedy-drama tratta dal romanzo «Cancellazione» di Percival Everett. Racconta di uno scrittore e docente universitario di letteratura afroamericano, Thelonious Ellison detto “Monk”, autore di romanzi complessi e destinati a un pubblico colto, il quale si trova travolto, suo malgrado, dal clima culturale basato sull’inclusione e la rivendicazione dei diritti tipico di questi tempi. Congedato per qualche mese dalla propria università californiana dopo un diverbio sull’utilizzo della parola nigger (che Monk trova legittimo in un determinato contesto letterario) con una studentessa bianca, torna a Boston dalla famiglia. È l’occasione per chiarire i rapporti con i fratelli e l’anziana madre che inizia a manifestare i segni di demenza, ma anche per comprendere il proprio ruolo di maschio afroamericano e uomo di cultura cinquantenne nella società americana di oggi.
Monk non vuole dover interpretare la parte dello scrittore «black» politicamente impegnato, cosa che gli viene richiesta spesso dagli editori: vorrebbe essere solo e semplicemente uno scrittore. Una sera però, un po’ per frustrazione e un po’ per sfida, scrive di getto un romanzo zeppo di stereotipi sulle persone nere, condito da uno stile grezzo e ammiccante, che rispecchia esattamente tutto quello che la classe bianca pensa debba essere un «libro black contemporaneo». Lo pubblica sotto pseudonimo e fa il botto. Da quel momento viene travolto dal successo di un libro che odia e che, pur rappresentando tutto quello che lui non è, lo rende improvvisamente ricco e in grado di prendersi cura della madre malata e dei bisogni della propria famiglia. «American Fiction» è un film scritto bene, forse non raffinatissimo e un po’ schematico, ma senz’altro in grado di toccare le corde della sensibilità woke contemporanea da un punto di vista originale, facendo emergere tutta la complessità e le zone grigie del dibattito intorno alle questioni sociali e razziali. Si trova su Amazon Prime: non fatevelo scappare.
(Amazon Prime)