Forse non tutti sanno – soprattutto fra i più giovani – che George Lucas prima di concepire e dare vita al primo ciclo di “Star Wars”, rivoluzionando completamente il suo modo di pensare e fare cinema, aveva già scritto e diretto un film di fantascienza: “L’uomo che fuggì dal futuro”.
È il 1970, Lucas ha ventisei anni, si è da poco diplomato in cinematografia alla USC di Los Angeles e ha fondato una piccola casa di produzione indipendente – l’American Zoetrope – con l’amico Francis Ford Coppola. Grazie a un contratto con la Warner Bros. Lucas trova i soldi per finanziare il progetto per un lungometraggio di cui sarà autore e regista e decide di estendere la storia del suo corto di diploma, un dramma distopico intitolato “Electronic Labyrinth: THX 1138 4EB”.
Accorciato il titolo, che in originale è “THX 1138”, e ampliate la linea narrativa e la durata, il film fu distribuito nel marzo del 1971. Fu un flop commercialee divise molto la critica dell’epoca, ma con il passare del tempo e grazie soprattutto alla notorietà che Lucas acquisì dopo lo smisurato successo della prima trilogia di “Guerre Stellari”, il film venne riscoperto sia dai cinefili sia dai critici, diventando lentamente un piccolo cult.
La versione Director’s cut fortemente voluta dal regista nel 2004, sebbene non del tutto ortodossa (sulla scia di quanto fatto da Lucas stesso con i primi tre “Star Wars”), fu il risultato di un enorme lavoro di color correction e ampliamento del comparto sonoro. Ma sono le musiche del compositore argentino Lalo Schifrin quelle che più di tutto il resto hanno giovato del restauro.
Il film racconta di un futuro molto remoto in cui gli uomini si sono trasferiti a vivere sotto terra. Una società che mira al raggiungimento della perfezione attraverso la negazione dei sentimenti e delle pulsioni più naturali. Gli abitanti del mondo sotterraneo, donne e uomini, vestono gli stessi anonimi abiti bianchi, hanno la testa rasata e vivono in coppie (miste o dello stesso sesso) in moduli abitativi identici, privi di qualsiasi personalizzazione e assegnati dal computer.
Le loro menti sono controllate dalle macchine attraverso la somministrazione di droghe e tranquillanti che inibiscono gli istinti sessuali e i sentimenti di ribellione, mentre la riproduzione avviene attraverso l’inseminazione artificiale. Ogni comunità è sorvegliata da addetti al controllo e disciplinata da squadre di poliziotti robot in divisa nera.
Lo scopo è quello di costruire una società efficiente e produttiva annullando ogni espressione individuale. Anche i nomi sono aboliti, e al loro posto si usano delle sigle, mentre la religione è più simile a una sorta di totemismo legato al culto dell’immagine del “Cristo di Memling” – per certi aspetti ci aveva visto lungo, Lucas.
In questo scenario il cittadino THX-1138 (interpretato da Robert Duvall) – attanagliato dai dubbi sul proprio ruolo di servitore della società e attratto dalla convivente LUH-3417 – infrange le regole e inizia a sognare una vita al di fuori del mondo sotterraneo. Arrestato, oggetto di un tentativo di rieducazione e internato fra i reietti, progetta infine una fuga che mette a repentaglio l’intero sistema.
Al di là della variazione sul tema orwelliano e dello sfruttamento di un genere che fra la fine degli anni sessanta e i primi settanta, nel periodo dello sbarco sulla luna, era diventato molto popolare, “L’uomo che fuggì dal futuro” è un film unico e molto diverso dalla fantascienza che all’epoca andava per la maggiore. A metà fra il truffautiano “Fahrenheit 451” e “2001: Odissea nello spazio” di Kubrick, quella di Lucas è un’opera fortemente innovativa sotto molti aspetti.
Innanzitutto nell’uso dello spazio: essenziale (anche per motivi di budget), claustrofobico, dominato dal bianco e completamente senza riferimenti. Nella “cella” in cui THX viene rinchiuso insieme agli altri prigionieri non ci sono pareti, non si vedono muri né porte ma soltanto uno spazio bianco infinito e inintelligibile come una sorta di deserto. Mentre le architetture, gli abiti e gli spazi abitativi e lavorativi sono copie sempre uguali di uno stesso ambiente replicato all’infinito.
Questo lavoro sugli spazi, esaltato dall’uso del rapporto 2.35:1 (comunemente chiamato cinemascope) che consente di aprire al massimo l’orizzontalità dello schermo, renderà iconico un certo modo di rappresentare gli universi distopici in molto del cinema successivo. Non è un caso, a questo proposito, che il Marin County Civic Center progettato dal celebre architetto Frank Lloyd Wright, utilizzato per molte delle sequenze del film, diventerà un riferimento estetico decisivo per lo scrittore Philip K. Dick, recatosi lì per la prima volta proprio nel 1971, e tornerà in diversi altri film di fantascienza.
Meno filosofica e decisamente più umanista della fantascienza kubrickiana, quella di Lucas punta a suscitare l’orrore per una società privata delle sue libertà più elementari. Caratteristica che fa di “L’uomo che fuggì dal futuro” un tipico esempio del cinema di genere della New Hollywood. Sia per i temi civili capace di evocare, sia per la ricerca di uno stile e di uno sguardo personali mutuati sull’idea di autorialità proveniente dalle avanguardie europee. Elementi in grado di spiegare, in parte, anche perché il film non venne capito dal pubblico. Il ritmo lento e ricorsivo con cui Lucas racconta una storia dalla trama molto esile era probabilmente un apice di modernità difficile da ricondurre alla fantascienza più tipica per la maggior parte degli spettatori di allora.
Oggi “L’uomo che fuggì dal futuro” resta uno dei più limpidi tentativi di ripensare Orwell in forma contemporanea ed è un gioiello della filmografia di Lucas rimasto per molti anni oscurato dalla saga di “Star Wars”. Eppure proprio quest’ultimo deve molto a un primo esperimento di costruzione di un mondo lontano nello spazio e nel tempo.
Gli ambienti, le scelte cromatiche e persino alcuni espedienti narrativi o l’uso delle sigle al posto dei nomi che ritroviamo in “Guerre stellari” provengono da qui. Mentre basta osservare con attenzione il robot alla cui costruzione lavora THX – quando è impegnato nella catena di montaggio nella prima parte del film – per capire dove nasca l’aspetto del droide protocollare C-3PO, uno dei personaggi più longevi della saga.
Ci sarebbero voluti anni a Lucas prima di tornare alla fantascienza – “Una nuova speranza” (1977) venne anticipato da “American Graffiti” (1973), che è un film totalmente differente. Quando lo fece rivoluzionò completamente il proprio approccio e la propria idea di cinema, puntando dritto verso l’intrattenimento e preparando la strada al “disimpegno” degli anni Ottanta. Eppure tutto era già nato con quel primo, piccolo film del quale un po’ tutti si dimenticarono rapidamente, nonostante oggi meriti almeno una (re)visione.
Quest’anno Bergamo Film Meeting si aprirà proprio con la proiezione del film con una nuova colonna sonora live. Ad occuparsene gli Asian Dub Foundation, una delle formazioni seminali del trip-hop anni Novanta, nel suo versante maggiormente contaminato con i suoni etnici delle periferie di Londra e dintorni del tempo. Sarà curioso ascoltare come la nuova soundtrack a base di ambient, punk, ritmi elettronici, reggae, bhangra e hip-hop si fonderà con il biancore dell’opera di Lucas.
L’appuntamento è per venerdì 6 marzo al Teatro Sociale di Bergamo (biglietti Intero 35 € / ridotto 30 € riservato ai donatori #SupportBFM 2020).