Il mio amico Dario Ghibaudo, artista di chiara fama, mi ha inviato via WhatsApp un’immaginetta in cui, in quattro riquadri, è mostrato il lavoro dell’artista, dell’artista in isolamento, dell’artista in quarantena, dell’artista dopo la quarantena: quattro riquadri identici, che raffigurano un signore grassoccio e serissimo, raggomitolato davanti a un cavalletto da pittore, intento al suo lavoro.
Non essendo artista, ho cercato una regola per il momento difficile, sapendomi inutile, impreparato (devo acquisire in futuro qualche competenza per poter agire, in qualche modo, aiutare durante le emergenze). Nel periodo di chiusura ho passato molto tempo montando riprese per un film documentario. Avevo ore di immagini in archivio, girate durante la produzione di uno spettacolo teatrale, molte ore, troppe per affrontarne il montaggio in tempi “normali”, così da fine febbraio, ogni giorno dalle nove alle diciassette, ho lavorato al progetto documentario, alle diciotto yoga (che detesto, in tempi “normali”), poi aperitivo con mia moglie e i miei figli, grandi, senza compiti da seguire: discrimine importante, mentre amici con figli adolescenti sono stati duramente segnati dalle esigenze scolastiche.
Ora inizia il deconfinement (in Francia sono poetici). Avevo prodotto due film, usciti in gennaio, uno stava funzionando benissimo, da metà febbraio tutte le prenotazioni sono state annullate. I cinema chiusi. Non è chiaro quando riapriranno. Il Ministero di riferimento ha taciuto fino al dieci maggio, salvo esprimere l’agghiacciante possibilità di progettare e lanciare una piattaforma online, un clone nostrano della più nota piattaforma internazionale, una specie di gigantesca pietra tombale marmorea su tutti i cinema, chiusi senza ritorno.
Conosco abbastanza bene il mondo della programmazione cinematografica in Italia, per un caso ho lavorato dal 2014 al 2017 per una piccola società di distribuzione. In quel periodo ho acquisito nel mercato internazionale e cercato di fare “funzionare” nei cinema una trentina di titoli importanti, ma piccoli e importanti: tra i quali “La teoria svedese dell’amore” di Erik Gandini, “Libere” di Rossella Schillaci, “Austerlitz” di Sergei Loznitsa, “Safari” di Ulrich Seidl.
A volte trovo commenti sui social in cui si stigmatizza il vezzo dei distributori cinematografici di presentare i film in poche piazze per uno o due giorni, quasi una presa in giro per il povero spettatore interessato. Non è un vezzo dei distributori, non di quelli che gestiscono una piccola società e non è sempre una scelta degli esercenti, anzi molto spesso gli esercenti non sono autorizzati dalle grosse società a mettere in cartellone i film che vorrebbero, conoscendo il proprio pubblico.
Fino al 2014 i film erano in pellicola: questo implicava elevati costi di stampa, di invio delle bobine, lunghi tempi di montaggio delle bobine sui proiettori e usura delle pellicole. Oggi il digitale permette molta più agilità nella gestione dei file per la proiezione, un server può caricare decine di film, ma spesso gli esercenti non sono autorizzati a programmare in contemporanea più film diversi, da diverse società. Alcuni esercenti si svincolano e cercano nuove modalità per acquisire un controllo completo sul proprio cinema. Probabilmente nei primi tempi non hanno avuto grossi titoli a disposizione, ma con un lavoro serrato hanno creato una clientela affezionata, che ben reagisce alle proposte inusuali, si entusiasma per i film proposti in versione originale. Il ruolo dell’esercente cinematografico può essere potentemente educativo, se così si può dire, brutta parola.
Finalmente un gruppo informale di gestori e proprietari di sale indipendenti hanno da poco trovato il modo di incontrarsi: sarà stata la tensione e la paura per la chiusura forzata, sarà stato il silenzio del Ministero, di fatto un buon numero di esercenti italiani si sono confrontati e hanno deciso di redigere una lettera aperta, in cui evidenziano, oltre alle criticità del momento, anche le incancrenite logiche della distribuzione italiana, reclamando il proprio ruolo nell’ambito della proposta culturale nazionale – all’iniziativa è collegata anche una raccolta firme.
Io, da piccolo produttore documentarista, osservo con interesse e curiosità: la crisi porta il cambiamento, on va voir (ah, il francese, devo imparare meglio la lingua, ho perso l’occasione, non ho sfruttato il periodo del confinement).
Alberto Valtellina, fotografo dal 1985, dal 1990 produttore, regista, montatore, grafico, organizzatore di programmi e rassegne cinematografiche. Nel gennaio del 2018 nasce Produzioni Alberto Valtellina, che si occupa anche della distribuzione di film.