Abbiamo chiesto alla bergamasca Carmen Pellegrinelli, regista teatrale e dottoranda in Scienze Sociali presso la University of Lapland, in Finlandia, di guardare in anteprima e recensire la nuova opera di Maurizio Panseri e Alberto Valtellina.
Il sociologo francese Bruno Latour dice che quando la ricercatrice inizia ad analizzare un fenomeno sociale prendendone in considerazione anche solo una piccola parte, può puntare a conoscerlo nella sua interezza tracciando le associazioni di cui il fenomeno partecipa. La realtà sociale umana e non umana può essere letta attraverso la ricostruzione delle connessioni che la attraversano. Il piccolo si connette al grande. L’umano è parte del non umano. Il locale è il globale.
È così che seguendo la bicicletta di Hermann Buhl lungo le strade che portano fino alle pareti del Pizzo Badile in Engadina, Maurizio Panseri e Alberto Valtellina ci conducono in un percorso di connessioni tematiche e visuali che allargano il quadro fino a rendercene personalmente parte. Guardare questo film mi ha fatto pensare che io certe cose non le farò mai, eppure il filo del racconto mi ha preso, fino a mostrarmi come in fondo anche scalare una parete a tremila metri mi possa, in effetti, riguardare.
Ne «La bicicletta e il Badile» si parla in realtà poco d’imprese. L’umano è solo parzialmente al centro della scena. Si parla piuttosto di mutui influenzamenti e di affetti. Affetto non solo come emozione, ma come stato di reazione, di ascolto. Il terreno senziente comune che percepiamo ad ogni incontro con quello che ci circonda. L’ambiente montano, restituito con una meravigliosa fotografia, testimonia silenziosamente come la complessità del mondo non si traduca nei moti dell’intenzionalità umana, ma con un’attenta descrizione degli incontri e delle relazioni che la popolano. Affetti. Quello di Kriemhild per il papà Hermann Buhl. Quello di Renata per la montagna, quello di Caterina e Martino per le arrampicate e di Guido per le salite in solitaria. L’affetto della montagna per i suoi camminatori e le sue scalatrici. Il suo improvviso chiudersi, sgretolarsi, sciogliersi, mutare. La paura nel vedere accadere il cambiamento.
Una cosa che abbiamo sempre considerato immutabile, generosamente disponibile, in realtà è viva e forse non è nemmeno lì per noi. Il nostro trasformarsi al suo trasformarsi. La cura di chi la montagna la studia e che vorrebbe fermare il flusso della sua trasformazione. La gentilezza e il rispetto di chi le si avvicina. Un senso di fragilità, di equilibrio sempre precario.
«La bicicletta e il Badile» mi riguarda perché non cede alla retorica di raccontare un’impresa umana eroica, ma restituisce l’umano come categoria porosa e in divenire aperta a mescolamenti, negoziazioni, in continua mutazione e co-evoluzione con altre forme di esistenza. Questa complessità si traduce drammaturgicamente in un impianto composto da più piani narrativi e tematici che si intersecano, rendendo il viaggio mosso e mai scontato.
Il primo di questi piani narrativi è il ricordo che Kriemhild Buhl fa di suo padre Hermann. Così comincia il racconto. Hermann che senza aver dormito il venerdì notte, riesce in un sabato e domenica a percorrere 150 km – da casa sua a Innsbruck fino al Pizzo Badile – a salire in quattro ore sulla parete nord-est del Pizzo, a fare 150 Km per tornare indietro e fresco fresco ed andare a lavorare la mattina successiva. Hermann Buhl che può essere ricordato come uno dei più grandi alpinisti di tutti i tempi, ma che in verità è per il suo lato creativo unito a una povertà di mezzi assoluta, che a noi risulta simpatico e molto vicino. Una creatività che era per lui prima di tutto ascolto dell’ambiente, dei suoi segnali, del linguaggio della via.
Buhl percorreva la montagna in bicicletta perché non aveva altro modo di spostarsi o forse perché la bicicletta gli permetteva di sentire meglio la montagna intorno a sé. Certo è che, ad anni di distanza, Maurizio Panseri e Marco Cardullo lo hanno fortemente sentito quel suo sguardo incantato sul mondo. In montagna oggi più che mai ha senso usare le gambe, ma anche i pedali. Per questo nel loro viaggio ecologico tendendosi vicino il diario di Hermann (il suo libro autobiografico «È buio sul ghiacciaio») entrano in un flusso di riflessione che si potrebbe sintetizzare forse le parole di Italo Calvino: «Io credo che il mondo esista indipendentemente dall’essere umano; il mondo esisteva prima dell’essere umano ed esisterà dopo, e l’essere umano è solo un’occasione che il mondo ha per organizzare alcune informazioni su se stesso».
(cit. in «Iovino», 2014, da un’intervista di Calvino del 1967).
Infine due menzioni speciali. La prima va al fatto che in questo lavoro si parla finalmente non solo di uomini, ma anche di donne scalatrici. Renata Rossi, la prima guida alpina Italiana, ricorda ancora i momenti “stridenti” e difficili con gli istruttori maschi ai corsi di preparazione nei primi anni ottanta. Caterina Bassi, scalatrice, ci dice che anche per lei da ragazza non è stato facile iniziare e che ora ci sono «ragazze fortissime» che scalano. Smaranda Chifu, giovane alpinista e giornalista, racconta come sia salita sul Resegone con la bicicletta e gli sci. I tempi stanno cambiando, ma il racconto delle imprese delle donne sulle pareti in montagna è ancora tutto da raccontare e questo film offre alcune belle suggestioni in questo senso.
La seconda menzione speciale va, a mio gusto, al modo in cui i personaggi sono disegnati, alla capacità di Valtellina di restituirli nella loro verità. Sono visti e ritratti con tale innocenza da risultare delicati. Li definirei svelati, attraverso un filo sottilissimo e invisibile d’ironia che parla attraverso indizi piccolissimi. Verso il finale, la sosta al trittico di Segantini «La natura», «La vita» e «La morte» traduce in immagini pittoriche l’anima del film e forse il suo messaggio nascosto: siamo “incrocio” di energie e di presenze; siamo puntini, opere sempre incomplete; ibridi esposti a continue contaminazioni. Il quadro è armonioso se visto ad una certa distanza, ma dentro è un brulicare, un continuo reciproco aggiustamento e un perpetuo divenire. Unica pecca: a questo punto ci sarebbe stata bene anche una piccola sosta alla casa di Nietzsche.
NB: dopo la prima assoluta al Cinema Mignon di Tirano questa sera, 13 maggio (alla presenza dei registi), «La bicicletta e il Badile» sarà a Milano il 15 maggio (ore 21) e il 16 (ore 14.30), al Cinema Beltrade, in un’anteprima in collaborazione con la Cineteca Centrale del Club Alpino Italiano (con la presenza dei registi e di Angelo Schena, Presidente della Cineteca); a Bergamo, Cinema Conca Verde dal 17 maggio (alla dei presenza registi); a Nembro (BG), Cinemateatro San Filippo Neri, dal 18 maggio (alla presenza dei registi); a Mezzago (MB), Cinema Bloom, dal 19 maggio (alla presenza dei registi); a Chiavenna (SO), Cinema Victoria, il 20 maggio; a Morbegno (SO) cinema Pedretti, il 23 e 24 maggio; a Darfo (BS), Cinema Garden-Iride, il 26 maggio (alla presenza dei registi); a Sondrio, Cinema Excelsior, giugno (data da definire); a Temù (BS), Cinema Alpi, luglio (data da definire); a Rovigo, cinema Duomo, l’11 novembre.