In oltre vent’anni di carriera Hirokazu Kore’eda non aveva mai fatto un film fuori dal Giappone. Dopo la conquista della Palma d’oro a Cannes nel 2018 con lo splendido “Un affare di famiglia” ha però deciso di provare a girare lontano dal proprio paese, lavorando per la prima volta con un cast & crew completamente straniero. E ha scelto la Francia, non nuova ad adottare registi marcatamente d’autore provenienti da altre nazioni.
“Le verità” è ambientato nella Parigi di oggi e racconta la storia di Fabienne (Catherine Deneuve), una diva del cinema francese che ha dedicato tutta la vita al lavoro e alla fama, sacrificando gli affetti più cari. Ora che è in là con gli anni la donna ha dato alle stampe le proprie memorie. Ma la figlia Lumir (Juliette Binoche) – che fa la sceneggiatrice e vive a New York – giunge in visita a Parigi con il marito (Ethan Hawke), un attore mezzo fallito, e la figlioletta Charlotte. Dopo aver letto l’autobiografia resta sconcertata per come è descritto il rapporto fra lei e la madre. Lumir accusa Fabienne di essere stata assente e di aver trascurato lei, il padre (da cui è separata da tempo) e la migliore amica Sarah, attrice anche lei, morta anni prima in un incidente stradale. Tuttavia Fabienne, che sta lavorando sul set di un nuovo film, non sembra mostrare pentimento e non si lascia andare ad alcun sentimentalismo.
Lentamente però le cose cambiano, seppur in modo appena percettibile. Un mutamento reso possibile dal rapporto che madre e figlia instaurano con Manon, la giovane protagonista del film di fantascienza che Fabienne sta girando. Fabienne interpreta la figlia di Manon il cui personaggio, per un paradosso temporale, non invecchia mai. Il carisma della ragazza e il suo talento, che a tutti ricorda quello di Sarah, aiuteranno madre e figlia a chiarire il loro rapporto, a superare le antiche ruggini e a raccontarsi quello che non si erano mai dette.
Come in larga parte del suo cinema e come nel film precedente Kore’eda mette al centro la famiglia. Tuttavia se in “Un affare di famiglia” gli affetti e i rapporti all’interno del nucleo familiare risultavano più veri e sinceri allorché slegati dai vincoli di parentela, qui è proprio il legame di sangue a creare lo sfaldamento e l’inautenticità delle relazioni. Lo sguardo del regista sembra soffermarsi sulla difficoltà di definire cosa sia realmente la famiglia nel mondo di oggi. Suggerendo che in Francia come in Giappone e in qualsiasi altra parte del mondo – e qui si rintraccia l’universalità di questo cinema e la lungimiranza della scelta di girare in Europa – non esiste un concetto, un’idea, un ritratto vero e incontrovertibile di cosa la famiglia rappresenti in questo primo stralcio del nuovo millennio. Perché non esiste una verità sola. Come infatti suggerisce il titolo italiano – che estende al plurale il singolare del titolo originale: “La verité” – ce ne possono essere tante diverse, soggettive, personali. Ma tutte ugualmente valide. La complessità dei legami di sangue, che si rispecchia in quella del mondo moderno, è proprio rintracciabile in questa natura obliqua, doppia e non completamente inesplicabile dei personaggi.
Nessuno può dire con certezza se l’autobiografia di Fabienne sia davvero tanto menzognera. Oppure se sia Lumir a non essere mai stata capace di riconoscere alla madre il grande valore artistico. Così come non è possibile giudicare quanto la scelta di Fabienne di sacrificare i propri affetti sull’altare della fama sia stato un comportamento deprecabile, dal momento che il contraltare proposto dal film è rappresentato dal genero. Tenerissimo padre e marito devoto, ma attore di bassa lega destinato al declino e con una pericolosa tendenza all’alcolismo.
Tutto è doppio dentro “Le verità”: tutto ha un significato che va oltre l’apparenza e niente può essere osservato per come lo si vede. Non è un caso che una delle primissime battute del film sia quella di Lumir che esclama: “sì, un castello che nasconde una prigione”. E lo fa avvicinandosi alla casa della madre dall’ampio giardino e rispondendo alla figlia che paragona la villa a un castello.
Scatta qui la metafora della prigione, come rappresentazione della difficoltà di vivere liberamente le emozioni all’interno di un nucleo familiare condannato all’incomunicabilità. Allo stesso tempo l’immagine è un avvertimento a non dare nulla per scontato. Perché dietro a ogni facciata di quiete, serenità e spensieratezza si nascondono le insidie più insospettabili
Del resto “Le verità” non è un film sul “non è mai troppo tardi”. Non c’è alcuna redenzione, epifania e agnizione fra i personaggi. Nessuno di loro compie una vera trasformazione. Tutto nel film di Kore’eda agisce in un fluire di eventi senza scossoni, senza twist narrativi e senza colpi di scena. Un po’ come nella vita reale i cambiamenti sono quasi impercettibili, sfumati, confusi dentro tutto il resto. E se il film invita a una riflessione, questa non è intorno al coraggio di dire la verità, quanto di essere il più possibile veri con noi stessi.
E non è un caso che sia proprio il cinema – patria dentro cui tutto è sempre vero, anche nella finzione – a fare da filtro al racconto. Oltre al film di fantascienza in cui Fabienne è co-protagonista, il grimaldello per aiutare madre e figlia a chiarire il loro rapporto, c’è in “Le verità” anche un lavoro molto intelligente sulla dimensione meta-cinematografica. Kore’eda è quasi spietato nell’inserire nel film accenni alla storia e alla vita personale della Deneuve. Come il personaggio di Sarah, evidentemente ispirato alla sorella di Catherine Françoise Dorléac (anche lei attrice morta a soli 25 anni nel 1967 in un tragico incidente stradale). Bellissima come Catherine e altrettanto dotata, forse persino di più. Ma il regista è incredibilmente inclemente anche nel costruire il personaggio di Fabienne, quasi del tutto sovrapponibile alla figura della sua protagonista: diva di grande talento ma vanitosa, autarchica e con una vita personale ingarbugliata.
Elemento che dà risalto all’enorme bravura dell’attrice francese, ma che evidenzia anche come il cinema sia il mondo dell’ambiguità e dell’inganno. In cui si può essere tutto e il contrario di tutto (giovani e vecchi, vivi e morti, presenti e assenti) e nel quale ogni cosa assume una forma esplicitamente contraddittoria. Dove non conta cosa sia realtà e cosa no, ma nel cui spazio chiuso e deputato alla rappresentazione possa emergere il racconto del mondo, delle sue disarmonie e insensatezze – e sta qui l’essenza del cinema sottile e affascinante di Kore’eda. Tutto questo viene suggerito da quel piccolo teatro di cartone che vediamo a più riprese nel film. Un giocattolo un po’ sciupato appartenuto a Lumir quando era piccola e con il quale ora vuole divertirsi Charlotte. Un luogo in cui prendono forma storie, sogni e piccole fantasie che a volte sembrano più vere della vita.