All’apparenza è tutto piuttosto semplice: scarichiamo una app di e-commerce o di food delivery sul nostro smartphone, compriamo o ordiniamo qualcosa e nel giro di poco tempo l’articolo, il prodotto o la cena ci arrivano direttamente a casa. Spesso non ci chiediamo che cosa viene innescato dal gesto, banale e quasi quotidiano, di premere il tasto “acquista” sullo schermo del nostro telefono. Eppure tutto questo mette in moto una filiera di esercizi, abilità e competenze in conseguenza delle quali l’ordine viene eseguito. In una parola, quella piccola azione genera lavoro.
Un nuovo sistema di lavoro a voler essere precisi, già diffusissimo anche in Italia, che la maggior parte di noi non comprende fino in fondo. Praticamente tutte le imprese di e-commerce o food per le consegne si affidano ad aziende di trasporto merci e queste a loro volta utilizzano lavoratori autonomi per recapitare a domicilio i prodotti. Autisti e rider – le uniche persone fisiche con cui noi clienti entriamo in contatto – costituiscono di fatto la base di questo sistema piramidale. Elemento che li rende maggiormente sfruttabili da chi sta sopra.
Come abbiamo imparato di recente, in seguito alle proteste dei rider italiani, le forme contrattuali di questi lavoratori, sfruttando una sorta di falla legislativa e l’assenza totale di tutele sindacali, sono di stampo ottocentesco. Dunque non hanno coperture assicurative, indennizzi in caso di malattia, sono reperibili a tutte le ore e sette giorni su sette, vengono pagati a consegna e con tariffe da fame, e la manutenzione dei mezzi è tutta a carico loro. Una situazione da terzo mondo, di cui un paese civile dovrebbe prima vergognarsi e poi occuparsi in maniera seria. Quando invece questa forma di sfruttamento 4.0 in tutta l’Europa e l’Occidente è diventata ormai comunemente accettata.
Dentro questo sistema Ken Loach, autore da sempre vicino alle tematiche sociali e del lavoro e dalla parte dei subalterni, infila la propria macchina da presa. L’ottantatreenne regista inglese – che dopo aver vinto la (seconda) Palma d’oro a Cannes con “Io, Daniel Blake” – aveva pensato di ritirarsi, non ha potuto ignorare quella che anche nel Regno Unito è ormai una piaga. Decidendo così di mettersi a raccontare il lavoro da una prospettiva nuova anche per lui, dimostrando una volta in più la grande freschezza e libertà del suo sguardo e la caparbietà del suo cinema.
“Sorry we missed you”, il titolo del film, allude al messaggio che i corrieri inglesi lasciano sulla porta o nella cassetta delle lettere quando, giunti all’indirizzo della consegna, non trovano nessuno in casa. E la storia racconta di Kris, idraulico di Newcastle il quale in seguito alla crisi del 2008 ha perso il lavoro come dipendente in una grande società edile e da allora si arrangia come può esercitando la professione in proprio.
Deciso a rischiare, nonostante non sia più giovanissimo e abbia due figli adolescenti da mantenere, l’uomo abbandona il vecchio lavoro e firma un franchising con una grossa azienda di consegne a domicilio. Oltre ad accollarsi completamente il rischio di impresa, Kris si indebita per comprare il furgone e tutti gli accessori necessari al lavoro, compreso il costoso scanner per la gestione dei colli. La moglie Abbie, che fa l’infermiera a domicilio, vende la sua utilitaria per consentire l’acquisto del furgone ed è costretta a raggiungere i suoi anziani pazienti in autobus, impiegando tempi biblici per spostarsi da una parte all’altra della città.
Lentamente entrambi iniziano a subire il logorio di occupazioni che li consumano e si mangiano il tempo della loro vita. Il figlio maggiore, anche in conseguenza dell’assenza dei genitori, si caccia nei guai, l’armonia familiare è pesantemente minata e tutto comincia inevitabilmente a sfaldarsi.
Loach fotografa con nerissimo disincanto la condizione di vera e propria schiavitù cui la tecnologizzazione del mercato del lavoro sta inesorabilmente conducendo. Una forma di asservimento nei confronti del lavoro stesso al quale la paura di non trovare alternative conduce a sacrificare anche i diritti più elementari.
Ed è proprio qui la questione centrale di “Sorry We Missed You”. Il regista insieme con il fidato sceneggiatore Paul Laverty, vero autore e ideatore del film, ci dicono che le tutele e i diritti dei lavoratori non sono elementi di secondaria importanza per nessuno. Non per la politica che è chiamata a sorvegliare e salvaguardare le spettanze di tutti e non per chi nella gerarchia del mercato si trova nelle posizioni più previlegiate. Ma soprattutto non ai lavoratori stessi. Che come Kris senza rendersene conto rischiano, a causa di una posizione di lavoro scomoda, non tutelata ed esposta allo sfruttamento, di sacrificare molto più che il lavoro stesso e di perdere anche cose insostituibili come la salute, gli affetti o le libertà personali.
Sono lontanissimi i tempi in cui il cinema di Loach si occupava delle lotte sindacali, dei disoccupati e delle storture delle politiche sociali, occupazionali e del welfare britanniche. Come testimonia anche quel passaggio in cui Abbie e una sua anziana paziente guardano la vecchia foto di uno sciopero di minatori, tutto appartiene al passato. E non perché non esistano più la disoccupazione e l’emarginazione sociale, ma perché in conseguenza delle moderne logiche che determinano il mercato del lavoro il rischio che il potere e la funzionalità dei sindacati si indebolisca è altissimo.
Kris non può permettersi di ammalarsi perché altrimenti deve pagare di tasca propria il suo rimpiazzo. Non può fare la pausa pranzo ed è costretto a consumare i suoi pasti direttamente nel furgone. Arriva perfino, su consiglio dei colleghi, a tenere una bottiglia sotto il sedile per espletare i bisogni corporali. Tutto questo perché lui, come tutti gli altri è pagato solo se porta a termine le consegne. E se il numero di consegne non è alto non solo non guadagna abbastanza, ma rischia di essere sostituito da chi garantisce risultati migliori. Perché la concorrenza riguarda direttamente i lavoratori e non più le aziende, le quali fondano i propri ricavi esattamente su questo. È in questo spazio vuoto – incompreso da istituzioni, sindacati e classe politica – che si consumano i drammi di rider e fattorini dei nostri tempi.
Il film accumula in maniera un po’ facile sia le sfortune che colpiscono i protagonisti, sia uno stato di continua aleatorietà e pericolo simile a un’incombente spada di Damocle. Tanto da rendere il tutto un poco fasullo e quasi tragicomico. Eppure lancia un grido d’allarme su una condizione della quale praticamente tutti, tranne i diretti interessati, ignora l’esistenza.
Lo dimostrano il silenzio e la rabbia (soprattutto social) del tutto immotivata scatenatasi contro i rider dopo le loro proteste della scorsa primavera qui dalle nostre parti. Prova lampante che quello in cui viviamo è senza dubbio il tempo della mancanza di empatia e di solidarietà. Ma a fianco di questo forse non tutti hanno ben chiaro che quello che succede a Kris potrebbe capitare a chiunque. Quantomeno se non si troverà un rimedio. E ancor prima una buona dose di consapevolezza.