Riprende tutto da dove l’aveva lasciato. Nel 2003, con «Buongiorno, notte», Bellocchio chiudeva il suo sguardo sul caso con Aldo Moro interpretato da Roberto Herlitzka che nel sogno di una brigatista si liberava e riconquistava le strade di Roma, all’alba: il passo sciolto, lo sguardo sereno, un nuovo giorno davanti, «Shine on you crazy diamond» dei Pink Floyd in sottofondo. Poi le immagini d’archivio dell’omelia funebre del 13 maggio 1978, gli sguardi ghiacciati di Zaccagnini e Andreotti, tra gli altri. Cossiga non si vede. Infine, ancora il Moro-Herlitzka a spasso nelle prime luci di Roma, come se il sogno contenesse realtà e finzione insieme, verità e fantasia.
Zaccagnini, Andreotti e Cossiga li ritroviamo nel 2022, all’inizio di «Esterno notte», quasi a chiudere un cerchio (o ad aggiungere un altro giro di spirale) nella stessa dimensione di irrealtà. Moro, questa volta interpretato dall’ispirato Fabrizio Gifuni, è al sicuro in un letto d’ospedale, stremato ma vivo. I tre dirigenti della DC – al tempo rispettivamente segretario di partito, presidente del consiglio e ministro dell’interno – lo guardano proprio come si guarderebbe il fantasma di un morto che pesa sulla coscienza: sgomenti, ammutoliti, contenti non si direbbe. E adesso? Sembrano pensare. I loro sguardi sul reduce ricordano quel verso della poesia di Christian Morgenstern – «Unmögliche Tatsache», «Realtà impossibile» – cui accenna Primo Levi ne «I sommersi e i salvati», quando parla dell’incapacità di credere a un fatto che secondo la logica non dovrebbe verificarsi: «Nicht sein kann, was nicht sein darf»: «non può essere ciò che non deve essere».
Ed è come se quelle facce guardassero qualcosa che non doveva essere. Sguardi che cadono su Moro, ma anche su di noi, mentre sentiamo quelle famose parole del Memoriale che suonano come incise nella pietra: «Non mi resta che constatare la mia completa incompatibilità con il partito della DC. Rinuncio a tutte le cariche, esclusa qualsiasi candidatura futura, mi dimetto dalla DC». Poi una lacrima scende sul viso del reduce, infine il buio. E si torna alla realtà, quella “vera”, di un assalto a un’armeria durante degli scontri di piazza del 1977, con il manifesto di «Anima persa» di Dino Risi che si staglia sul muro della strada.
Inizia così la prima parte di un film della durata complessiva di oltre cinque ore, considerata anche la seconda in uscita il 9 giugno. Un longform destinato a diventare una serie tv in sei episodi nel prossimo autunno, in cui Bellocchio torna a raccontare i frammenti di una vicenda già sviluppata, e non solo da lui, davanti alla macchina da presa. Cosa resta da raccontare di una storia così nota? Violentata, per giunta, da ogni tipo di dietrologia? Restano un sacco di cose, e sono solo in apparenza marginali. Resta il collaterale, tutto ciò che in «Buongiorno, notte» era escluso: il «controcampo», come lo ha chiamato lo stesso regista. Vent’anni fa il nucleo era l’anatomia del rapimento e della prigionia, il covo, uno svolgimento orizzontale orientato all’enunciazione, al (ri)dare materialità visiva all’immaginazione collettiva.
Con la serie-film, presentata in anteprima a Cannes, si procede invece in verticale, con lo studio dei personaggi poco (o meno) raccontati dentro i confini di questa vicenda, nel rovello delle circostanze. Siamo perlopiù all’esterno del famoso appartamento-prigione di via Montalcini: i luoghi sono i palazzi del governo e del Vaticano, le chiese e i confessionali, casa Moro, le strade, gli spazi della quotidianità. C’è però una continuità additiva con il film del 2003, non solo suggerita dalla “notte” del titolo: «La maggior parte delle cose che ci sono in questa storia non c’erano in quell’altra» ha dichiarato Bellocchio.
Un prodotto concepito per la TV, a cui il regista però fa parlare il linguaggio del cinema, anche quando non struttura le vicende di quei famosi 55 giorni nelle linee narrative alternate così abusate dalla serialità televisiva. La storia di quei giorni convulsi è organizzata in capitoli che si stringono addosso ai principali protagonisti per scandagliarne le profondità psicologiche ed emotive. È un esercizio che riesce molto bene sul singolo, ma che si fa un po’ facilone quando l’immagine da ritagliare è di un gruppo o di un contesto.
Ai fatti si guarda attraverso più punti di vista: Aldo Moro tra partito e famiglia, Francesco Cossiga (Fausto Russo Alesi), Papa Paolo VI (Toni Servillo) e il cappellano di San Vittore che fa da tramite nelle trattative intraprese dal Vaticano. E poi il nucleo delle BR all’esterno, in particolare la coppia Valerio Morucci e Adriana Faranda, tra i pochi contrari all’esecuzione finale. Piccolo inciso: proprio Adriana Faranda in questi anni ha intrapreso insieme ad Agnese Moro, figlia del presidente, un percorso di “giustizia riparativa”, di riconciliazione e “cura del passato”, che le porta spesso a effettuare incontri pubblici insieme (recentemente anche a Bergamo per Molte Fedi). Un capitolo densissimo è dedicato alla moglie Eleonora Moro (Margherita Buy), in un ampio scorcio intimista sulla famiglia. E poi ancora Moro e la sua soliutudine, naturalmente.
Per contestualizzare il periodo storico Bellocchio usa il repertorio, ne mette in scena uno, condensa, ricerca (e trova) l’atmosfera, talvolta il guizzo del dettaglio azzeccato basta per il tutto (mica facile) che è comunque inafferrabile, inevitabilmente sommario, ma non spetta al cinema studiare la storia e raccontarla per filo e per segno. L’obiettivo di tutto il percorso è un altro: il fattore umano, il singolare dentro al vortice collettivo. Può sembrare banale considerarlo, ma lo è solo in apparenza perché la Storia – e il racconto della Storia – tende a generalizzare, ad appiattire i picchi, le specificità. Il personale è inaspettato, spiazzante, rivelatorio, cambia la prospettiva.
È qualcosa di cui parla lo stesso Franco Bonisoli, brigatista membro del gruppo di fuoco, intervistato da Sergio Zavoli nel programma «La notte della Repubblica»: «Aveva [Moro] una grossa religiosità che ci colpì molto. Soprattutto un’altra cosa che ci colpì molto era proprio la sua attenzione ai problemi della sua famiglia. Tra di noi avevamo sempre anche questa idea della persona dello Stato, immerso dentro al ruolo... e quindi [che] al di fuori del ruolo non c’è nient’altro. Questa fu un’altra cosa che ci toccò».
Su quello si concentra Bellocchio per raccontare la reazione emotiva e nervosa, l’insicurezza dietro le granitiche versioni ufficiali e dietro la corazza del ruolo (il dilemma di Paolo VI sullo “stile” da usare per scrivere alle BR), l’umano contorcersi di fronte alla Storia che stravolge la quotidianità, fa perdere l’orientamento e mina le certezze. Personalizza, privatizza: siamo pur sempre alla fine degli anni Settanta, Bellocchio ha il senno del poi, il riflusso degli Ottanta è dietro l’angolo, il caso Moro in qualche modo chiude un’epoca. E allora diventa soprattutto una questione di simboli e metafore. Il corpo che non c’è più, quello di Moro, l’uomo dell’equilibrio (perduto): all’interno del partito, nelle relazioni con la Santa Sede, nel governo a cui pur non partecipa, tra DC e PCI che poi sono le due anime del Paese nel decennio di maggior conflittualità sociale e torbidità istituzionale (come scrive Miguel Gotor, autore del bellissimo volume «Lettere dalla prigionia» edito da Einaudi: «nel 1978 erano in corso delicate inchieste giudiziarie che coinvolgevano i vertici militari e dei servizi segreti italiani e stranieri»).
C’è poi il corpo della moglie, incatenato fuori dalla sede della DC, le sue ragioni come incatenate dalla ragion di Stato, dagli interessi del potere. Il marzo 1978 è anche periodo pasquale. In una Via Crucis immaginaria, vediamo Moro che come Cristo porta la croce per le strade di Roma, con la folla del partito in processione, i dirigenti-amici che seguono a distanza. Ed è come se ci fosse una voce fuori campo: «ecco l’agnello di Dio che toglie i peccati del mondo, sacrificato per voi e per tutti in remissione dei peccati».
L’apparato simbolico è anche questione di reazioni corporali. Moro insonne, Andreotti si vomita addosso, papa Paolo VI si autolesiona col cilicio, sanguina; Cossiga attanagliato dal senso di colpa e dall’emicrania, è respinto dalla moglie che non lo vuole nel letto, ne rifiuta il corpo anche nel suo simulacro, «non abbiamo nemmeno una fotografia insieme» lamenta lui, e dorme male, stretto nella sua inquietudine, l’unica cosa che sembra riuscirgli è sbrogliare il tricolore dal pennone del suo ufficio, si guarda le mani e le vede macchiate. I corpi vomitano, sudano, sanguinano, soffrono, come fanno i corpi degli uomini. I pasti restano inconsumati, perdono tutti l’appetito. Tranne Andreotti, con quel solito fare alieno, per lui “la solita piccola porzione di spaghetti al pomodoro con un po’ di Parmigiano”, in compenso si ripromette di non mangiare più gelato finché Moro non sarà tornato in libertà.
Le ragioni di Dio, la “ragion di Stato”: il corpo riporta tutto a terra, alla grandezza della banalità umana, perché dietro quelle ragioni ci sono sempre gli interessi degli uomini, così come dietro le leggi c’era Creonte, la sua intransigenza, e infine il suo senso di colpa. Come nella tragedia, così nel caso Moro: la colpa e l’espiazione. La colpa di chi lo ha abbandonato a un destino tutt’altro che scritto, come in fede a un bene superiore, a una forza disincarnata e necessaria che prima ha alimentato la delegittimazione e il discredito – Moro «drogato», «impazzito» – poi ha lasciato che i brigatisti concretizzassero quel folle epilogo, a dispetto di una liberazione possibile. Così non è stato, qualcosa si è mosso in un’altra direzione evidentemente. Sono i fantasmi, operano quando la notte è più buia. L’espiazione tocca a un Paese intero che ancora oggi tampona una ferita aperta il 9 maggio 1978. Bellocchio ce la fa pulsare davanti agli occhi, come pulsano le ferite degli uomini in carne e ossa, che chiedono di essere medicate.