Nelle ultime settimane una notevole quantità di film annunciati per l’autunno è stata posticipata di diversi mesi. Si tratta di tutte le produzioni hollywoodiane più attese della stagione, alcune delle quali – come “West Side Story” di Steven Spielberg ora programmato per il prossimo 17 dicembre – già in ritardo di quasi un anno. Nel 2020 non vedremo sicuramente “The French Dispatch” di Wes Anderson, il remake di “Dune” firmato da Denis Villeneuve, il nuovo James Bond “No Time to Die” di Cary Fukunaga e nemmeno “Assassinio sul Nilo” di Kenneth Branagh e i cinecomic “Black Widow” e “Wonder Woman 1984”, tutti inizialmente previsti in uscita fra ottobre e novembre.
Certo, i motivi sono noti e scontati e nelle settimane in cui i contagi da Covid-19 stanno risalendo in maniera preoccupante quello di andare o meno al cinema è un problema che si pongono in pochi. Per il settore è però una mezza catastrofe, dopo una stagione disastrosa come quella scorsa in cui molti cinema in tutto il mondo hanno chiuso per sempre, non è troppo irragionevole pensare come un’altra serrata possa infliggere la mazzata finale e sancire la definitiva scomparsa della sala cinematografica.
In questo senso sembra quasi una fosca premonizione la scelta comunicata nelle scorse ore dalla Disney – ormai la major più potente del panorama hollywoodiano – di abbandonare la sala e concentrarsi solo sullo streaming. Con la conseguente decisione di ritirare “Soul” uno dei film più attesi dell’anno dalla programmazione in sala e renderlo disponibile direttamente sul canale tematico Disney+. Una disposizione facente parte di un più ampio piano di ristrutturazione all’interno del quale l’azienda (che ha già operato quasi 30000 licenziamenti solo negli Usa) intende ridefinire le regole della produzione e distribuzione dei film, sfidando apertamente il colosso Netflix. Insomma un quadro piuttosto preoccupante per chi ancora crede e resta affezionato alla sala, ma in generale le avvisaglie di un cambiamento epocale che potrebbe restituirci nel giro di pochi mesi un mondo molto diverso da come lo conosciamo.
In attesa di capire gli sviluppi, che per forza di cose seguiranno di pari passo quelli delle misure anti crisi, proviamo a concentrarci sul quel poco che è rimasto. Fra le cose migliori in uscita ci sono due film, una fiction e un documentario, di cui consigliamo la visione e magari – finché siamo ancora in tempo – in sala.
“Il processo ai Chicago 7” di Aaron Sorkin
Da uno dei più apprezzati e influenti sceneggiatori di Hollywood, da qualche tempo passato dietro la macchina da presa, uno dei film più interessanti del momento. Già in sala nelle ultime settimane e da domani disponibile anche su Netflix, è un trial movie sui generis, di ambientazione storica. Il processo al centro del film è quello che gli Stati Uniti intrapresero contro gli organizzatori della manifestazione di Chicago dell’agosto 1968, quando diversi gruppi politici, della controcultura pacifista e delle lotte razziali – ritrovatisi in massa nella capitale dell’Illinois per organizzare una protesta in occasione della convention del partito democratico all’indomani degli omicidi di Bob Kennedy e Martin Luther King – sfociò in una serie di disordini e rivolte. Il procuratore generale da poco insediatosi a seguito dell’elezione di Nixon li fece accusare di cospirazione. Il loro rinvio a giudizio suscitò enorme indignazione e dissenso nell’opinione pubblica americana e fece sì che il processo passasse alla storia.
Quello di Sorkin è evidentemente un film sull’America di oggi, per mezzo del quale il regista riflette sul presente attraverso il passato. I diritti civili, l’uguaglianza razziale e di genere, il pacifismo e i contrasti ideologici da cui emerge lo scontro fra due concezioni del mondo, o più semplicemente fra due Americhe che il film mette in luce, sembrano argomenti della più stretta attualità. E per forza di cose riguardano anche noi spettatori di oggi. Sorkin lavora su queste frizioni con la consueta maestria e intensifica la trama con dialoghi fitti e brillantissimi, flashback, ricordi, divagazioni come in uno spettacolo di stand up comedy, lasciando volar via le due ore di film tutte d’un fiato.
Costruisce una serie di contrapposizioni molto nette, quasi prive di sfumature: i giovani hippie e liberal engagé da un lato e i conservatori reazionari e conformisti dall’altro, entrambi con anime differenti e sfaccettate al loro interno, ma polarizzati su posizioni inconciliabili e opposte. E per questo motivo sostanzialmente i buoni da un lato e i cattivi dall’altro. Ma in fondo è proprio questo lavoro sugli stereotipi a rendere esplicito e vivo – oggi come allora – il confronto fra due mondi distanti e diversissimi, capaci di leggere l’altro solo per mezzo della propria retorica e della propria ideologia. Guardare per credere le sfide elettorali fra Trump e Biden su cui si gioca il futuro dell’America e del mondo.
E in fondo anche in mezzo alle licenze poetiche, alla drammatizzazione, ai colpi di scena e al bisogno di aggiungere finzione alla verità tipici di questo cinema, emerge la capacità di restituire alla storia – e alla Storia – la propria carica civile, la sua forza rivoluzionaria e il suo ruolo formativo. Lasciando nello spettatore se non la convinzione almeno la speranza che non esista alcun potere contro il quale non valga la pena sollevarsi. (Netflix / Anteo Treviglio dal 16 ottobre)
“Nomad – In cammino con Bruce Chatwin” di Werner Herzog
Quella fra Werner Herzog e Bruce Chatwin è stata un’amicizia lunga e intensa, spezzata solo dalla morte prematura dello scrittore inglese. Entrambi classe 1940 i due condivisero esperienze nei quattro angoli del mondo: mentre uno era impegnato alla lavorazione dei suoi film più “esotici” e l’altro di passaggio durante gli interminabili viaggi nelle zone più remote del pianeta. “Nomad” è soprattutto un omaggio, un ricordo intimo e commosso di Herzog per l’amico a trent’anni dalla scomparsa (Chatwin morì per le conseguenze dell’Aids nel 1989 a soli 48 anni), in un’operazione per certi versi simile a quella che vide protagonista Klaus Kinski. Ma è anche un diario molto personale attraverso cui il regista bavarese racconta, ricorda, ripensa e rimette in scena alcuni momenti nodali della propria vita. Un doppio legame talmente intenso quello fra Herzog e la storia (le storie) di Chatwin da strappare il regista dal ruolo del mediatore per renderlo a tutti gli effetti protagonista.
Il film infatti ripercorre alcune delle tappe più importanti della vita del celebre viaggiatore britannico – dalla Patagonia, all’Australia, dall’Africa settentrionale fino al Galles dove Herzog incontra Elizabeth, la vedova dell’esploratore – intersecando ogni luogo alle esperienze personali e professionali del regista. E così scopriamo come “Grido di pietra” il film sull’alpinismo del 1991 con Vittorio Mezzogiorno impegnato alla scalata della leggendaria cima andina del Cerro Torre, sia un omaggio proprio a Chatwin e come il protagonista sia ricalcato completamente su di lui. Oppure che durante la lavorazione di “Cobra Verde” (1987) in Ghana un Chatwin già malato fu una presenza costante.
Una presenza che è stata molto più di una fonte di ispirazione. Quasi un insegnamento per guardare le cose, per osservare il mondo. Il Chatwin affabulatore, abile a mischiare la realtà alla fantasia e a raccontare “non mezze verità – come dice il biografo Nicholas Shakespeare nel film – ma sempre una verità e mezzo” è come una guida alla mediazione, alla narrazione e alla testimonianza filtrata dalle proprie memorie, nella vita come nell’arte. E senz’altro nel cinema, l’arte della mediazione per eccellenza dove tutto è vero e falso nello stesso istante. E dove ogni esistenza, proprio come per Chatwin, può diventare un romanzo. Purché la si viva come un’esplorazione, un’avventura, un viaggio interminabile. (Conca verde / Del Borgo dal 19 ottobre)