In principio fu “Tenet” di Chris Nolan, uscito a fine agosto e primo film a tornare in sala nel post-lockdown. Ora però, con la riapertura della stagione cinematografica e un protocollo sanitario definito, la programmazione sta riprendendo per davvero e – pare – ai ritmi consueti. Come sempre l’anno cinematografico inizia in concomitanza con la chiusura della Mostra del cinema di Venezia e molti dei film passati al festival diventano gli eventi inaugurali della stagione. Data l’edizione particolare e un bacino significativamente ridotto di pellicole disponibili per la selezione, quest’anno il programma di Venezia era ricchissimo di titoli italiani, molti dei quali in uscita proprio in queste settimane.
Non solo nel Concorso, ma anche nelle altre sezioni le opere di casa nostra erano numerose. Dal bel documentario di Luca Guadagnino sulla vita incredibile e avventurosa di Salvatore Ferragamo, “Salvatore – Shoemaker of dreams”, a quello “d’autore” della coppia Massimo D’Anolfi e Martina Parenti: “Guerra e Pace”. Ma anche gli ultimi film di Salvatore Mereu, “Assandira”, e Daniele Segre, “Molecole”.
Ne abbiamo selezionati cinque – tutti quelli in concorso più uno – già usciti al cinema o in procinto di farlo: sono quelli di cui si sta parlando in questi giorni e grazie ai quali il settore si augura di poter rilanciare la stagione 2020/21 dopo un anno di sofferenza e al netto delle limitazioni imposte dalle norme anti-Covid.
“Notturno” di Francesco Rosi
Escluso del tutto dal palmarès, per lo stupore di molti, il nuovo documentario di Rosi (già Leone d’oro per “Sacro Gra” e Orso d’oro alla Berlinale con “Fuocoammare”) è un film che divide. Girato nel corso di tre anni sui confini fra Iraq, Kurdistan, Siria e Libano, racconta la quotidianità nascosta dietro la tragedia delle guerre civili, le dittature feroci, le invasioni, le ingerenze straniere e l’apocalisse omicida dell’ISIS. Un’opera che si pone nell’intervallo fra la catastrofe appena passata e la speranza di una rinascita. “Notturno” come l’attesa dell’alba dopo il tramonto di tutto: della propria esistenza, dei propri sogni, della civiltà. Il film sta in questo spazio metaforico cogliendone alla perfezione i segni. Tuttavia si arena – come molti altri film del regista – negli eccessi estetici e in un puntiglioso e testardo abbellimento di ogni aspetto formale. Non c’è nulla di naturale o alcuna traccia di realismo. Ogni cosa è “messa in scena”, ricostruita e resa più bella dal lavoro di ripresa e post produzione. Donne cui hanno ucciso i figli fatte sfilare come in una coreografia dentro la cornice dei corridoi di un carcere, bambini orfani che descrivono la morte (e la disegnano) in piedi di fronte alla camera, pazienti di un manicomio impegnati in una recita teatrale a beneficio dello spettatore. Più che una rappresentazione del dolore o un racconto della contemporaneità, un enorme punto interrogativo sul rapporto (e il limite) fra etica e estetica dell’immagine cinematografica. (Capitol multisala / Anteo Treviglio)
“Le sorelle Macaluso” di Emma Dante
La vita di cinque sorelle a Palermo dai primi anni Ottanta fino al presente e più in là, nel futuro. Maria, Pinuccia, Lia, Katia, Antonella – circa dieci anni di differenza fra la prima e l’ultima – hanno una casa di fronte al mare ma nessun genitore, allevano colombe bianche, di quelle che si fanno volare ai battesimi o ai matrimoni, e badano a loro stesse. Le vite di ognuna saranno intrecciate per sempre, fino alla fine. E così il loro rapporto con la casa di famiglia, vero spazio metaforico, di mediazione, in cui forze carsiche e sotterranee sembrano indirizzare le esistenze stesse di chi vi abita: i rapporti, le emotività, la vita e la morte. Un film teatrale, per una regista con una lunga carriera di drammaturga in grado – nonostante la visibile, a tratti, inesperienza per il mezzo cinematografico – di costruire un universo suggestivo e ricco di sfumature. Un’opera drammatica, amara, nerissima, in cui tuttavia si respira un senso di intimità e protezione. Femminile accogliente, quasi materno. Un racconto nel quale il tempo, con il suo scivolare immutabile e imprecisato e con i suoi sedimenti, si fonde con la memoria, con il ricordo. E in cui tutto, anche lo scorrere di cinque vite, sembra poter durare per sempre. (Conca verde)
“Miss Marx” di Susanna Nicchiarelli
Eleanor Marx detta Tussy, la figlia più giovane di Karl Marx, ebbe una vita ricca ma infelice. Piena di passione per la politica, le battaglie delle donne e dei lavoratori ma pure amore per il teatro e la letteratura. Si tolse la vita a quarantatré anni. Susanna Nicchiarelli la racconta a partire dalla morte del padre, nel 1883, fino al suicidio avvenuto nel 1898. Tussy è una donna che precorre i tempi: anche per via della sua educazione e del melieu colto nel quale cresce, sviluppa un credo politico fermamente progressista e una forte coscienza femminista. Ma si trova schiacciata e imprigionata in un matrimonio con un uomo subdolo e profittatore amato senza essere ricambiata: un fallimento che la consumerà fino alla fine. “Miss Marx” è una rappresentazione rispettosa, delicata e intensa nei confronti di un personaggio verso cui la regista romana prova affetto e a cui regala un ritratto rigoroso e appassionato con evidenti richiami al presente. Non solo per la questione femminista e la modernità di pensiero, ma anche nella scelta di una colonna sonora punk affidata alle musiche dei Downtown Boys. Un contrasto con la rigidità degli ambienti e del décor vittoriano che è la perfetta metafora della personalità complessa della protagonista. (Anteo Treviglio / Uci Orio e Curno)
“Padrenostro” di Claudio Noce
Il 14 dicembre 1976 il vicequestore Alfonso Noce, di stanza a Roma come responsabile dell’antiterrorismo del Lazio, rimase gravemente ferito durante un agguato dei Nuclei armati proletari – nel quale morirono un agente della scorta e uno dei terroristi – ma sopravvisse. Il figlio Claudio, allora poco più che bambino, ha vissuto tutta la vita con il trauma di quell’episodio (avvenuto sotto casa sua e al quale assistette) e a più di quarant’anni di distanza ha deciso di farci un film. “Padrenostro” è fatto soprattutto delle memorie che il regista si porta dentro da una vita, il racconto di una fase della crescita in cui le immagini e i ricordi (e le amicizie, i rapporti, i legami familiari) restano dentro per sempre. Eppure manca – per evidenti ragioni – quella distanza e quella metaforizzazione che un tema tanto delicato come quello sullo sfondo meriterebbe. Il film finisce così per diventare una sorta di agiografia della figura paterna (interpretata neanche a dirlo da Pierfrancesco Favino, premiato con la coppa Volpi), senza alcuna sfumatura o messa in prospettiva. E in cui gli anni di piombo filtrati dalla memoria di un bambino diventano più che altro una specie di fantasia infantile. (dal 24 settembre)
“Lacci” di Daniele Luchetti
Dal romanzo omonimo di Starnone un film pieno di star del cinema di casa nostra: Alba Rohrwacher, Luigi Lo Cascio, Laura Morante, Silvio Orlando, Giovanna Mezzogiorno e Adriano Giannini. La storia di una famiglia napoletana dagli anni Ottanta fino a oggi, in mezzo un padre assente, incapace si esserci e di amare. Intorno una famiglia stretta, imprigionata e incapace di reagire: una moglie, due figli ma anche un’amante, tutti per motivi costretti a fare i conti con l’anaffettività di un uomo senza pregi, chiuso nei propri silenzi e nelle proprie debolezze, non in grado di scegliere né di esprimere i sentimenti. Un dramma costruito su diverse temporalità e sulle personalità cangianti dei personaggi. Un film che ragiona sulle insidie della famiglia attraverso quarant’anni di storia italiana (in cui le cose non sembrano però cambiare mai) e allo stesso modo sulla crisi della coppia – le parti con i genitori giovani e i figli piccoli sono quelle che funzionano meglio. Ma soprattutto una riflessione sul progressivo fallimento e la crisi del maschile nella nostra società. Qualcosa che non si vede molto spesso nel cinema italiano. (dall’1 ottobre)