93FE310D-CB37-4670-9E7A-E60EDBE81DAD Created with sketchtool.
< Home

I film imperdibili delle feste: da Almodóvar a Nosferatu, le storie che conquisteranno il pubblico

Guida. Il periodo natalizio è tra i preferiti dal grande pubblico per andare al cinema. E allora, come ogni anno, ecco i nostri consigli di visione per scegliere cosa vedere all’interno del ricchissimo palinsesto cinematografico delle feste. Dal cinema d’autore a quello di genere e al biopic ce n’è per tutti i gusti!

Lettura 5 min.

Il periodo natalizio è tra i preferiti dal grande pubblico per andare al cinema. E allora, come ogni anno, ecco i nostri consigli di visione per scegliere cosa vedere all’interno del ricchissimo palinsesto cinematografico delle feste. Dal cinema d’autore a quello di genere e al biopic ce n’è per tutti i gusti!

«La stanza accanto» di Pedro Almodóvar

Leone d’oro all’ultima Mostra di Venezia e già in tutte le classifiche dei migliori film dell’anno «La stanza accanto» è un film straordinario di un autore altrettanto straordinario. Almodóvar affronta di petto, come mai prima d’ora, due temi spaventosi come la malattia e la morte. E lo fa con una grazia e una leggerezza che lasciano attoniti, facendo un cinema apparentemente distante dal consueto – anche se i colori e il gusto ricercato per arredi e scenografie sono quelli di sempre – ma capace di toccare la sensibilità più profonda di ognuno di noi. Tilda Swinton, una donna affetta da una malattia incurabile che sceglie di morire, e Julianne Moore, una vecchia amica che la aiuta a farla finita, praticamente sole in scena dall’inizio alla fine, restituiscono un’intensità fortissima al racconto e danno spessore ai temi complessi che il film mette in campo. Temi che non sono semplicemente legati al tabù e alla paura della morte, ma sono soprattutto l’occasione per Almodóvar di riflettere sulla vita, per provare a comprenderla proprio attraverso la morte. E proprio come fa il personaggio di Moore che se all’inizio rifiuta l’idea stessa che l’amica possa scegliere di andarsene, lentamente accetta l’ineluttabilità della morte.

Come se il regista ci dicesse che in fondo siamo tutti già morti senza rendercene conto, ma che è proprio questa l’unica condizione possibile per capire e apprezzare la vita. Che poi ad interrompere la vita debba essere un’altra persona o semplicemente ci si possa affidare Dio, appartiene all’ambito della fede. Come se il regista ci dicesse che è proprio questa l’unica condizione possibile per capire e apprezzare la vita; quali che siano le scelte personali, o di fede, di ognuno di noi quando si parla di qualcosa di tanto grande e complesso.

Conca Verde / Uci Orio / Arcadia Stezzano /Anteo Treviglio / Starplex Romano di Lombardia

«The Substance» di Coralie Fargeat

Premio per la sceneggiatura al festival di Cannes «The Substance» è uno degli horror più amati e celebrati dell’anno. Racconta di un’attrice in declino (di popolarità ma anche fisico) interpretata da Demi Moore, che venuta a conoscenza di una non meglio specificata “sostanza” in grado di dare al proprio corpo un aspetto giovane e vitale, decide di provare ad assumerla. E così, trasformata in una versione di sé giovane e bellissima (nata dal suo stesso corpo ma con le sembianze di Margaret Qualley), ritrova la forma e l’attenzione mediatica di un tempo. La sostanza però richiede delle regole ferree e stringenti per funzionare al meglio e quando la protagonista inizia a trasgredire, gli effetti le si ritorcono contro e il suo corpo che reagisce nei modi più inaspettati.

È più di un horror politico «The Substance»: è un vero horror ideologico. Con una certa dose di furbizia il film porta a galla alcuni grandi temi della contemporaneità come la differenza di genere, le politiche del corpo (delle donne), il male gaze e tutte le questioni culturali connesse. E se usare il genere per ragionare sul presente, sul modo in cui lo percepiamo e quello in cui ci rapportiamo a esso è qualcosa che il cinema ha sempre fatto, la prospettiva schematica e, appunto, ideologica di Fargeat – che divide il mondo in due: quello maschile gretto e stolido e quello femminile, tormentato e remissivo – non dà risposte e sembra invece ripiegarsi su se stessa, lanciando accuse a un sistema del quale però assume il medesimo sguardo stereotipato. Insomma, a parte il godimento dato dai bagni di sangue e dalle impressionanti deformazioni e mostruosità che riempiono lo schermo, «The Substance» sembra mostrare poco altro. Ma a quanto pare è un poco che piace tantissimo!

Uci Orio

«Grand Tour» di Miguel Gomes

Miguel Gomes, portoghese, classe 1972 è uno degli autori più importanti del cinema contemporaneo. Forse poco noto al grande pubblico è stato capace negli ultimi anni di guardare e raccontare il mondo di oggi e le sue contraddizioni (politiche, sociali, culturali) fotografandole con un occhio unico e personale. Non fa un cinema per tutti, ma i suoi film richiedono uno spazio di ragionamento e negoziazione con le immagini che non si ferma alla superficie e che se si sceglie di accettare, è giusto portare fino in fondo. «Grand Tour», ambientato all’inizio del Novecento (siamo nel 1917) in diversi paesi asiatici, è soprattutto una riflessione sull’eredità coloniale europea. Racconta di un uomo, Edward, un funzionario dell’impero britannico che dalla Birmania dove è di stanza intraprende un viaggio disperato attraverso Giappone, Cina, Tailandia, Vietnam e fino alle Filippine, per scappare dalla fidanzata Molly, che lo insegue col proposito di sposarlo senza rendersi del tutto conto del fatto che lui ha cambiato idea.

Una storia d’amore impossibile e commovente – con lei che tenace e ottimista non si perde d’animo e vuole disperatamente qualcosa e lui, triste e rassegnato che non ha idea di cosa fare della propria esistenza – che rispecchiano due delle tante anime dello sguardo occidentale sull’Oriente. Cioè una prospettiva coloniale su un continente che pur conquistato, dominato, assoggettato, non è mai stato compreso fino in fondo. Una commedia, un documentario etnografico, un romanzo storico... non si capisce bene cosa sia «Grand Tour», eppure è qualcosa di magico, sfuggente e incredibilmente affascinante in cui le immagini, libere, sgranate (è girato in pellicola 16mm), a colori e in bianco e nero, scorrono come un fiume in piena, ci travolgono e non ci lasciano andare.

Conca Verde

«Maria» di Pablo Larraín

Un altro (ennesimo) film su Maria Callas potrebbe far storcere il naso a qualcuno, specialmente fra i melomani più intransigenti o i devoti alla figura della Divina. Specialmente se poi nei panni della soprano c’è un’attrice smaccatamente hollywoodiana come Angelina Jolie. E invece «Maria» è un film molto ben riuscito, intelligente e con uno sguardo originale su quella che è stata una delle più grandi figure femminili del Novecento. Il regista cileno Pablo Larraín – vero maestro del cinema contemporaneo e già autore di due opere che ritraggono altre due icone femminili del XX secolo come Jacqueline Kennedy («Jackie», 2016) e Lady D. («Spencer», 2021) – racconta l’ultima settimana di vita di Maria Callas (morta a Parigi il 16 settembre 1977 a 53 anni), dipingendola come un’eroina tragica (e sola) e inserendola in un mondo onirico popolato dalle ossessioni della vita della cantante (la storia d’amore con Onassis, i ricordi “greci” della giovinezza, il rapporto controverso col proprio corpo) ma in cui riverberano anche i grandi successi sul palcoscenico.

Maria, che immagina di raccontare la propria vita a una troupe televisiva, viaggia attraverso i ricordi come se questi coincidessero con le grandi opere liriche da lei interpretate nel corso della carriera. E ogni fase della sua vita è come descritta da un’aria famosa: quasi che i destini delle protagoniste di opere come «Madama Butterfly», «Il trovatore», «I puritani», «Otello», «Norma», «La traviata», «Tosca» e tante altre, rispecchiassero la vita travagliata e infelice di questa donna straordinaria, irripetibile e immortale, ma anche tanto fragile e sfiorita troppo in fretta.

Dal 1 gennaio

«Nosferatu» di Robert Eggers

«Nosferatu, eine Symphonie des Grauens» (letteralmente “Nosferatu, una sinfonia dell’orrore”) in italiano «Nosferatu il vampiro», fu il titolo dato all’adattamento del celebre romanzo «Dracula» di Bram Stoker dal regista tedesco Friedrich Wilhelm Murnau nel 1922, quando firmò uno dei capolavori del cinema espressionista.

Nel 1979 un altro grande autore del cinema tedesco, Werner Herzog, girò un remake del film di Murnau: «Nosferatu, il principe della notte». Questo terzo «Nosferatu» di Robert Eggers è quindi l’ultimo tentativo di rilettura di uno dei film più famosi e amati della storia del cinema (non solo dell’orrore). Si tratta di un adattamento particolarmente fedele del film del 1922, con un racconto che ricalca – in alcuni punti anche visivamente – quello dell’opera di Murnau. Non ci sono guizzi o scelte particolarmente originali e la storia – la stessa di «Dracula», il vampiro che dalla Transilvania giunge nella Londra vittoriana scatenando l’orrore – ripropone esattamente i cliché narrativi che tutti conosciamo. Quello che Eggers fa è però rendere molto più esplicito il sottotesto sessuale che Murnau – con grande maestria – riusciva a far emergere soltanto accennandolo. Il vampiro diventa quindi uno strumento del desiderio in cui sesso e morte si mischiano e confondono l’uno nell’altra e dal quale la società vittoriana (ma il riflesso sul presente è chiaro) non viene solo sconvolta, ma fatalmente conquistata e spinta al peccato e al godimento. E l’orrore, come in tutte le società borghesi, risiede nell’impossibilità di sfuggire al peccato e al desiderio che conduce alla morte. Ma in fin dei conti sono cose che sapevamo bene e che «Nosferatu» ci racconta da sempre, anche prima che ne facessimo un (altro) remake.

Dal 1 gennaio

Approfondimenti