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“Hammamet”: il Craxi immaginario di Amelio e la fine di una Storia da (non) dimenticare

Recensione. Fra sogni, ricordi, immagini e volti che abbiamo lasciato indietro il regista calabrese ripercorre l’ultimo atto della vita del leader socialista. Per riflettere sulla storia recente del nostro Paese, che sembra già lontana un secolo

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E così la parabola discendente di un uomo – che dalla politica, e dall’Italia, si è preso tutto – è raccontata dal regista senza alcun interesse (o bisogno) di schierarsi a favore o contro. L’intenzione invece è quella di costruire una testimonianza immaginaria, quasi onirica, di una caduta. Craxi è un monarca sconfitto, costretto a un isolamento volontario prima e, a causa degli eventi, una latitanza poi. Il disfacimento fisico causato dalla malattia, il lento consumarsi di un corpo che è di per sé evocazione della nostra Storia, diventa per Amelio un progressivo distacco dalla realtà.

Lì nella sua villa elegante ma non sfarzosa, elemento che contraddice il luogo comune dell’esilio dorato, Craxi si trasforma in un fantasma. Ed è accudito, a sua volta, da altri fantasmi. Una figlia immaginaria cui Amelio assegna il nome garibaldino di Anita e Fausto, il giovane figlio di un ex compagno di partito. I quali gli stanno vicino con aria stranita, quasi senza chiedersi il perché. Anita è scissa fra l’amore filiale e l’amarezza per un sentimento che non sente ricambiato, mentre Fausto è carico di rabbia perché imputa a Craxi la responsabilità dello screditamento del buon nome di suo padre. Anche per via di una recitazione monocorde e di un’espressività ridotta all’osso, conseguenza di un dilettantismo attoriale fin troppo marcato, entrambi sembrano osservare l’uomo senza capirlo, con uno sguardo carico di incomprensione. Come fossero i testimoni di un mondo che ha smesso di appartenere non tanto, o non solo, a uno come Craxi, ma soprattutto a ciò che egli rappresenta. Come politico e come espressione di un’epoca in via di esaurimento.

Dalla personalità del leader politico descritto da Amelio emerge l’incapacità di comprendere il passaggio verso un’epoca nuova. L’errore di tutta la classe e la generazione politica della Prima Repubblica fu soprattutto quello cercare di perpetuare un modo di fare e vedere la politica che il Paese non riusciva più a comprendere. Mani Pulite fu il grimaldello per scardinare un sistema già sull’orlo del collasso. Un apparato che, a prescindere dal mare di corruzione rivelato dall’inchiesta dei giudici di Milano, aveva concluso il proprio percorso.

Il Craxi orgoglioso, battagliero e convinto della propria integrità morale del film è in realtà un dinosauro che lotta strenuamente contro l’inevitabile. Egli difende le proprie idee, opponendo all’immagine di ladro consegnata all’opinione pubblica, quella di un dirigente il cui potere ha permesso al partito di ottenere sì finanziamenti, ma nessun arricchimento personale. Secondo lui senza agire diversamente da chiunque altro all’interno dello spettro politico italiano. A mancargli è però la consapevolezza che i distinguo e le prese di posizione ideologiche, in un tale contesto, suonano come vacue giustificazioni. Perché egli si mostra come un ingranaggio funzionale alle strutture di potere. Un elemento interno di una forma di pensiero e di cultura, alla soglia del nuovo millennio, ormai sorpassata.

Pur risultando, a suo modo, coerente e “sincero”, il Craxi di Amelio si attesta come una figura che congiunge in maniera indissolubile l’uomo e il politico. Uno degli aspetti più sottili, meno semplici da descrivere e certamente più riusciti del film, è la tipizzazione di un personaggio così esposto mediaticamente del quale è però praticamente impossibile identificare una dissonanza fra la dimensione pubblica e quella privata. Per questo motivo la personalità forte, fiera, vanitosa e a tratti arrogante, iraconda che di Craxi emerge dal film, è sovrapponibile a ogni sfera della sua vita.

Ma è anche il limite estremo che impedisce alle sue memorie, affidate nel finale del film da Fausto ad Anita – e quindi, non a caso, da un personaggio immaginario all’altro – possano essere tramandate. Perché i ricordi rielaborati, il passato raccontato secondo la propria versione dei fatti e impresso sui nastri di una videocamera, sono soltanto interpretazioni personali e divagazioni revisioniste di una storia già scritta, già consumata e che già allora si iniziava a rimuovere.

Forse è a questa memoria smarrita che Amelio intende rimediare con questo film. Non a quella di Craxi uomo o politico, ma a quella di un momento storico evaporato troppo in fretta e forse mai del tutto capito o rielaborato con la necessaria attenzione. Proprio come in “Colpire al cuore” – il film (peraltro girato a Bergamo) che il regista calabrese scrisse e diresse per osservare e mettere al vaglio degli spettatori e della propria generazione la stagione degli anni di piombo con tutte le sue contraddizioni – anche con “Hammamet” tenta qualcosa di simile.

Se è certamente difficile chiedere a chi ha meno di trent’anni oggi di collocare con precisione Craxi nella geografia e nella storia dell’Italia repubblicana, è vero che un film come questo sa parlare a differenti generazioni. Perché racconta più di una storia e perché invece che ricordare, preferisce immaginare e rilegge una pagina cruciale della nostra vicenda di Paese come un racconto sul quale ognuno di noi può innestare il proprio pensiero, la propria esperienza e il proprio sguardo.

In fondo ha ragione Amelio quando dice di aver fatto tutto fuorché un film politico. “Hammamet” non parla di politica, non si schiera e non dà giudizi sul proprio protagonista, ma è piuttosto un’opera che riflette sulla fine. E benché il film termini con un momento onirico a tinte funebri – purtroppo veramente pessimo e non necessario – la sua forza sta nella rappresentazione di ben altra fine. Quella della politica italiana e di una stagione talmente intensa, confusa e imponente da stare stretta dentro i confini nazionali. Tanto stretta che per morire è andata fino in Tunisia.

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