Prosegue, con una nuova infilata di grandi classici del cinema in 35mm, «Sogni in pellicola», la rassegna allestita da Lab80 in collaborazione con il Bergamo Film Meeting. Giusto lo scorso marzo, a ridosso della 40esima edizione del Festival, protagonista era stata gran parte dell’opera di Andrej Tarkovskij: ne avevamo parlato con Angelo Signorelli di Lab80, anche per approfondire i moventi di un’operazione – proiettare film in pellicola – che sarebbe superficiale definire semplicemente nostalgica o passatista, anche perché la transizione al digitale dentro le sale cinematografiche è una realtà compiuta ma che è ancora piuttosto giovane.
A questo nuovo giro tocca ad altri due grandissimi autori, tra i massimi e maggiormente influenti che quest’arte abbia espresso finora: Billy Wilder e Carl Theodor Dreyer. Così diversi tra loro che viene da chiedersi se e come possano convivere, dialogare, messi così, uno accanto all’altro, a passarsi il testimone di lunedì in lunedì. Uno – Wilder – interprete di un cinema fortemente letterario, intelligente, brillante, innovativo nonostante fosse orientato al consumo di massa e all’intrattenimento, un cinema verboso costruito su un’architettura narratologica calibrata al millimetro, per lui imprescindibile: un approccio che lo ha reso il regista europeo trapiantato a Los Angeles meglio inserito nei meccanismi del cinema hollywoodiano, pur mantenendo una personale identità autoriale.
L’altro – Dreyer – decisamente un outsider in termini commerciali, dalla fine degli anni Venti realizza praticamente un lungometraggio ogni dieci anni ed è votato a un cinema contemplativo e meditativo, lento, solenne, pervaso da una pazienza ascetica che certo non si affanna a voler intrattenere ma trova nel potenziale espressivo dell’immagine la forza di penetrare grandi temi dell’umano: la fede, l’amore, la morte. E dentro ognuno di questi, l’autorità e il potere costituito, qualsiasi esso sia.
Wilder vanta 7 oscar, ha uno sguardo cinico e satirico sulla società americana che è molto europeo, è uno sceneggiatore straordinariamente talentuoso ed effervescente, scappa dalla Germania dei campi di concentramento perché ebreo, arriva alla Paramount per lavorare come sceneggiatore, scrive con Charles Brackett «Ninotchka» (in programma il 7 novembre) e impara la lezione di Ernest Lubitsch – il famoso Lubitsch touch – raccogliendo il testimone della cosiddetta «commedia sofisticata», pur guadagnando inizialmente la notorietà tra il grande pubblico soprattutto con i drammi «La fiamma del peccato», «Giorni Perduti», «Il Viale del Tramonto», «L’asso nella manica»: commedia e dramma, il paradosso dell’umano non a caso dunque, anche solo nell’opera di Wilder. Ma certo anche in rapporto a Dreyer, autore invece austero e di scarso successo commerciale, devoto alla cura della forma in maniera maniacale, quasi religiosa, e diventato uno dei maestri indiscussi del cinema mondiale, riferimento imprescindibile per tutto il cinema d’autore e d’avanguardia del Dopoguerra.
Insomma, sembrano agli antipodi, forse lo sono, e pensando ai loro film li si vede quasi sbattere dentro una rassegna che prova a presentarli insieme. Eppure, nonostante queste dissonanze, a guardarci bene, questi due autori condividono qualcosa di importante a un livello più profondo della capacità di declinare sullo schermo quel paradosso dell’umano che dà il titolo alla rassegna. In primis, un debito nei confronti del teatro, per entrambi. Le commedie di Wilder sono tratte spesso da pièce teatrali (è il caso di «Testimone d’accusa» e «Baciami, stupido» per citare solo tra quelli in programma), così come «Dies Irae» e «Ordet» di Dreyer, che si rifà al teatro certo non solo in relazione al soggetto. Ma soprattutto è qualcosa che ha che fare con il loro essere autori, con l’approccio e il metodo: si tratta del rigore, imprescindibile e decisivo, che ha permesso a entrambi di imporsi come modelli fondativi di due modi di fare cinema, di raccontare una storia, seppur molto diversi tra loro.
Il rigore di Wilder è nell’organizzazione scientifica della sceneggiatura, nell’impalcatura in cui ogni elemento ha una funzione ben precisa e nulla trova spazio che non sia strettamente necessario allo svolgimento del plot , tutto è in funzione dell’intreccio: struttura in tre atti, turning point calibrati, la giusta chiusura del secondo atto, il climax, la risoluzione, e sopra la solidità di questa struttura dialoghi brillanti, sottotesti, personaggi ben caratterizzati. Tutta roba che ancora si insegna nelle scuole di sceneggiatura di tutto il mondo, una specie di ricetta della Carbonara. E che come la Carbonara funziona sempre alla grande. «Non mi chiedo se sto scrivendo una commedia o una tragedia» ebbe a dire Wilder, «cerco solo di scrivere una storia che funzioni».
Eccolo il rigore, e la sua finalità: rapire lo spettatore, portarlo via. Dove Wilder lo fa immergere dentro una storia ben raccontata, Dreyer lo fa trascendere in una dimensione simbolica, oltre-umana, mistica. Ed ecco il rigore di Dreyer, invece, ormai celeberrimo ed evocato ogni volta che se ne parla, come un epiteto: lo stile ascetico e l’economia di mezzi, il minimalismo della messa in scena per lasciare a nudo lo spessore dei personaggi (si pensi anche solo all’egemonia dei primi piani in «La passione di Giovanna d’Arco») e creare una specie di realismo astratto, espressionista, calmo ma di grande tensione drammatica. Dove da una parte c’è la potenza dell’immagine e dello stile, dei volti e dell’introspezione psicologica, dall’altra c’è la potenza del dialogo brillante, dei “beat” di una sceneggiatura “svizzera”. Entrambi, a loro modo, sono architetti estremamente rigorosi. In entrambi è centrale la razionalizzazione delle idee e degli elementi con cui costruire il film. Ed è forse proprio questo aspetto che ha permesso loro di trasformare una forte identità autoriale in un modello a cui rifarsi dentro la storia del cinema mondiale. Due maestri che è sempre un piacere riscoprire.