Dopo aver parlato di circo e arte, musica e balletto, oggi è il turno del cinema (indipendente, naturalmente). Incontro Giovanni Labadessa in Città Alta, un attimo prima di salutarlo lo scorgo osservare piazza Vecchia con lo stesso stupore dei viaggiatori. Lascio scegliere a lui il luogo per la nostra intervista e mi propone un tavolo in un bar centrale, “si va in giro per tutto il mondo anche per poter fare i turisti a casa quando si torna, è bellissimo!”, mi dice.
CD: Quando sei partito, perché sei partito e cosa hai trovato?
GL: Sono partito nel settembre del 2005 e sono andato direttamente a Los Angeles per studiare recitazione alla Lee Strasberg Theatre & Film Institute. Fu tutto molto “all’avventura”, con pochi soldi e anche con poca coscienza di cosa veramente mi aspettasse dall’altra parte. Durante gli studi ho iniziato a scoprire e a interessarmi ad altri ambiti, iniziando a coltivare la professione mi si è aperto un mondo tra regia, scrittura e produzione. Mi sono poi iscritto alla UCLA (University of California Los Angeles, ndr) studiando produzione cinematografica per una ragione molto semplice: avevo capito che la professione che mi interessava era la sceneggiatura, ma nessuno voleva produrre i miei film; ho pensato che studiando produzione avrei compreso meglio la ragione di rifiuti.
CD: Da quel momento è iniziato il tuo percorso, ma chi è un producer?
GL: Nell’immaginario generale è colui che finanzia i progetti. In realtà ci sono diverse professioni all’interno della produzione cinematografica, quello di cui mi occupo io è lo sviluppo di sceneggiature per la realizzazione sullo schermo e anche la realizzazione pratica. Il mondo cinematografico va pensato come l’edilizia: dal muratore all’ingegnere, ognuno ha il ruolo per la realizzazione.
CD: Quindi nel concreto qual è il tuo?
GL: Negli anni ho sviluppato due carriere parallele, da un lato quella da libero professionista sui set, dove mi occupo di budget, risorse umane e logistica; dall’altro mi occupo di riadattare in sceneggiatura cinematografica testi di vario genere, dai fumetti, alla letteratura, alle opere teatrali. Queste due carriere parallele sono la mia professione.
CD: È stato immediato il passaggio a professionista, dopo gli studi?
GL: La storia dell’immigrazione è uguale in tutto il mondo: dopo gli studi, come tutti gli immigrati, mi sono dovuto dedicare a molti lavori diversi, oltre a quello a cui ambivo, il mio sogno. Due delle persone a cui devo tantissimo sono coloro che mi piace definire i miei “mentori”: Boris Damast e Andrea Kikot, che mi hanno accolto e guidato in un percorso di crescita all’interno della loro casa di produzione a Venice Beach. Molti incontri nel tempo sono diventate collaborazioni: come Luca Severi con cui ho realizzato l’ultimo progetto, o Domenico Nesci con il quale ho condiviso viaggio di andata verso gli Stati Uniti e con il quale ho realizzato un film, “Lonely italian” (trailer) che ora è su Prime Video.
CD: Ora hai raggiunto una stabilità professionale?
GL: Ci sono stati tantissimi alti e bassi, con qualche piccola grande gioia che poi diventa l’inizio di un nuovo percorso e di una nuova crescita. Lavoro come libero professionista e ho una mia casa di produzione, Lumiere Lab, con la quale sviluppo e produco opere cinematografiche. Fino ad ora abbiamo realizzato tre lungometraggi, di cui uno che sarà in arrivo al cinema in Italia spero molto presto, un documentario dedicato al fotografo Douglas Kirkland, dal titolo “That Click” (trailer), presentato alla Festa del Cinema di Roma nel 2019. Negli ultimi dieci anni i miei obiettivi sono cambiati molto e spesso. Credo che, per chiunque abbia una pulsione artistica, l’obiettivo dovrebbe essere avere libertà creativa.
CD: È un sogno verosimile a Los Angeles, anche dal punto di vista economico?
GL: Sì! Los Angeles è una città meravigliosa, anche molto difficile, ma in continua evoluzione e ricchissima di opportunità e di persone in grado di ispirarti al miglioramento. È la città ideale per chi ha necessità di soddisfare continuamente un istinto di evoluzione e crescita.
CD: Una città in cui è bene superare sé stessi?
GL: Ho realizzato diverse sceneggiature, ma fino ad ora non mi era mai capitato che una venisse accettata ad un concorso. I nostri film hanno ricevuto premi e partecipato a festival importanti, ma c’è sempre il pensiero di voler realizzare qualcosa che funzioni davvero. Si lavora tanto, ma a volte è difficile raggiungere i riconoscimenti sperati. È una sensazione che ho provato per la prima volta quest’anno, in cui la mia sceneggiatura è stata ammessa al premio di sceneggiatura del Mammoth Lakes Film Festival, selezionata con altre dieci opere soltanto, provenienti da tutto il mondo. È una soddisfazione personale dopo sedici anni di lavoro in America, la risposta alla domanda: “a qualcuno piacerà quello che scrivo?”.
CD: Credi sarebbe stato possibile sviluppare la stessa carriera in Italia?
GL: Sì, si può fare. Poi personalmente, per quanto riguarda me, non so se sarebbe andata allo stesso modo. Io ho bisogno di alti coefficienti di difficoltà, rendo meglio se vengo messo profondamente sotto pressione e cerco insistentemente il challenge più alto delle mie possibilità. Cose che in Italia, all’inizio del mio percorso, non ho trovato.
CD: Ma in Italia torni periodicamente per l’organizzazione di Nòt film Fest. Come è nato il progetto?
GL: L’obiettivo era creare in Italia, ma anche in Europa, uno spazio per i tanti lavoratori del settore che si sentono non inclusi, perché il loro modo di fare cinema non è quello tradizionale o mainstream. La volontà è stata quella di creare un piccolo salon des refusés, sempre partendo dal sentirci i “reietti” del cinema, ci siamo resi conto di essere in molti, quindi abbiamo pensato di creare uno spazio per tutti coloro la cui voce è effettivamente fuori dal coro. Una specie di isola pensata per accogliere i pirati, infatti il festival è interamente basato sulla community. In soli quattro anni la rete di persone partecipanti è cresciuta a dismisura, quest’anno contavamo quaranta paesi da tutto il mondo. Ma la cosa bella è l’orizzontalità: professionisti di fama internazionale si sono messi a disposizione del progetto e ci stanno accompagnando nella crescita.
CD: Perché a Santarcangelo di Romagna e non a Bergamo?
GL: Santarcangelo è un piccolissimo borgo con una grande attenzione all’arte e alla cultura, oltre allo storico Festival dei teatri, vengono organizzati festival di poesia e musicali. Il progetto del nostro festival è stato pensato proprio per un contesto ridotto, volevamo avere uno spazio contenuto in cui le persone potessero incontrarsi ed interagire non solo durante gli eventi, ma anche nel tempo tra uno e l’altro. Per questo a Bergamo non sarebbe stato possibile, ha una dimensione cittadina che a livello logistico avrebbe reso in maniera completamente diversa. Sebbene sul piano artistico e culturale ho sempre ritenuto Bergamo una città di grande fervore ed avanguardia, so bene che è già abituata alla ricezione del cinema indipendente.
CD: Sogni per il futuro?
GL: Nell’immediato futuro la nascita di Nòtstream, la nostra piattaforma streaming dedicata al cinema indipendente. Una sorta di estensione digitale del festival e dei valori che porta avanti.