Il cinema di novembre è d’autore, che non vuol dire necessariamente qualità. Ecco quattro film da vedere nelle sale della città e della provincia in questi giorni.
«The Triangle of Sadness» di Ruben Östlund
Palma d’oro al festival di Cannes di quest’anno e uno dei casi cinematografici dell’anno. Il «Triangolo della tristezza» sarebbe quella porzione di viso fra occhi e sopracciglia in cui si annidano le rughe, incubo – soprattutto – per indossatori, modelli e ragazzi (ragazze) immagine e combattuto strenuamente dalla chirurgia estetica. Sin dal titolo è chiaro come il film parli di apparenza, finzione, ipocrisia e come tutto il racconto tratti di una sorta di grande inganno dato dalla ricchezza e dall’opulenza. Una coppia di giovani super-modelli (lui e lei) in perenne conflitto per chi fra i due guadagni di più, si imbarca per una crociera su uno yacht di lusso insieme con un gruppetto di altri ricconi. Ben presto l’imbarcazione si trova in balia di una tempesta e, prima di naufragare, diventa teatro di una disgustosa serie di atti scatologici causati dal mare grosso. E proprio queste scene in cui i ricchi si trovano letteralmente a nuotare disperati nei propri fluidi corporali hanno riscosso un incredibile successo di pubblico e (parte della) critica, tanto da eleggere Östlund a raffinato e mordace interprete della satira contemporanea.
A dire il vero però il regista svedese pare muoversi all’interno di uno stile comico-grottesco elementare e risaputo, dove a suon di vomito e diarrea vengono stuzzicati gli istinti più bassi degli spettatori. Senza filtri e senza aggiornare in alcun modo cose che il cinema (e non solo lui) ha già detto, stradetto e digerito da tempo immemore. Anche per questo la seconda parte del film, con i naufraghi sperduti su un’isola deserta (e i ruoli fra padroni e servi che si ribaltano) sa di già visto e ricorda qualcosa che nella migliore delle ipotesi riporta la mente alla commedia dell’arte, mentre in termini più prosaici a un cinema che qui in Italia conosciamo molto bene e spazia con grande libertà da Lina Wertmüller ai fratelli Vanzina…
(Conca Verde, Anteo Treviglio)
«L’ombra di Caravaggio» di Michele Placido
Una produzione internazionale con un cast d’eccezione per il film che Michele Placido dedica al grande pittore di origine bergamasca. Riccardo Scamarcio nel ruolo di Caravaggio, Isabelle Huppert in quello di Costanza Colonna e poi Louis Garrel, lo stesso Placido, Vinicio Marchioni, Moni Ovadia, Alessandro Haber, Micaela Ramazzotti… La storia inizia quando Papa Paolo V ingaggia un misterioso membro dell’Inquisizione chiamato semplicemente «Ombra» (Garrel) per indagare su Caravaggio, la sua vita e le sue amicizie – nel momento in cui il pittore, su cui pende una condanna a morte per omicidio, si trova in esilio a Napoli e spera gli venga concessa la grazia dal Pontefice. Da quel momento attraverso una serie di flashback riviviamo la tumultuosa vita del Merisi durante gli anni romani, fra risse, baccanali, scontri religiosi con l’autorità ecclesiastica e poi grandi amori, infatuazioni focose e spiccati sentimenti di amicizia in una continua e instancabile ricerca per rinnovare la propria arte. Sorretto da un genio straripante ma anche da un male di vivere e da una tensione di morte inesauribili.
Quello di Placido al netto del didascalismo, delle semplificazioni (l’accento non esattamente lombardo di Scamarcio) e delle cadute di stile (l’incontro con Giordano Bruno) è un ritratto onesto e sincero, che racconta il più grande artista della sua epoca come il genio inquieto che è stato tramandato dai biografi, cercando però di aggiornarlo al presente, assegnandogli un carattere dubitativo e improntato a una spiritualità libera (come liberi sono i suoi costumi) e quasi consapevole di una sorta di predestinazione all’immortalità. Pur negli eccessi drammaturgici di cui è pieno il film incredibilmente funziona. Così come le sequenze dedicate alle creazioni artistiche: una per tutte quella della realizzazione de «La morte della vergine», la cui straordinarietà (quella del dipinto intendiamo) permea fino a donare grazia anche a uno “stonato” Scamarcio.
(Capitol, UCI Cinemas Orio, UCI Cinemas Curno, Starplex Romano di Lombardia, Arcadia Stezzano, Anteo Treviglio)
«Un anno, una notte» di Isaki Lacuesta
Una sera di sette anni fa, il 13 novembre del 2015, Parigi venne squassata da una serie di attentati terroristici sconvolgenti e terribili, fra i peggiori che si ricordino. Dei numerosi luoghi della capitale francese che furono fatti oggetto di attacco l’immaginario collettivo ne ha fissato soprattutto uno: il teatro Bataclan. Quella sera nel locale si stava svolgendo un concerto della band statunitense Eagles of Death Metal quando alcuni uomini armati irruppero nel locale facendo fuoco e lanciando granate sulla folla. Fu una carneficina: 90 le vittime e oltre 200 i feriti. La cronaca la ricordiamo più o meno tutti, è impossibile dimenticare. Soprattutto dimenticare la violenza, la morte e la paura di quei momenti. Spesso però non si pensa a tutto il resto: come a chi è riuscito a salvarsi e continua, nonostante tutto, a tirare avanti. Isaki Lacuesta in «Un giorno, una notte» prova a soffermarsi proprio su questo e cerca di raccontare non la storia di chi al Bataclan ha perso la vita, ma quella di chi è sopravvissuto. Come i protagonisti Ramón e Céline – lui spagnolo e lei originaria di Nizza – una coppia affiatata e innamorata che dopo essere scampata miracolosamente all’attentato inizia a fare i conti con quello che resta: i tentativi di dare un senso all’orrore, gli attacchi di panico, l’incapacità di riprendere in mano la propria vita, la volontà di ricordare tutto e allo stesso tempo quella di rimuovere ogni ricordo.
Le loro vite (immaginarie) contengono quelle di tutti i sopravvissuti (reali) che al Bataclan non hanno lasciato la vita ma un pezzo importante del proprio spirito e della propria anima, impossibile da riavere indietro. I protagonisti vedono la loro relazione (l’uno con l’altro, ma anche con il mondo tutto intorno) sfaldarsi, e la loro storia racconta, più in grande, quella di una generazione smarrita, senza punti di riferimento e incapace, proprio come loro, di darsi una spiegazione che possa dare un senso all’orrore e allo stesso tempo misurare la correttezza delle proprie opinioni, idee politiche e convinzioni sociali e culturali. Un’implosione di valori, convinzioni e intenzioni alla quale non c’è rimedio e che «Un anno un giorno» fotografa con una lucidità disarmante. Da non perdere.
(Lo Schermo bianco)
«Bones and All» di Luca Guadagnino
Luca Guadagnino è senza dubbio il nostro regista dall’animo più internazionale. Amato all’estero, è capace non solo di attrarre interesse – soprattutto – dal mondo culturale anglosassone, ma anche di sintonizzarsi in maniera molto disinvolta su quel tipo di sentire, pensare e raccontare. Non è un caso quindi che il suo cinema si arricchisca sempre più spesso di volti, luoghi, personaggi e situazioni che fuggono lontano dall’Italia. Se quasi tutti gli ultimi film (e serie) mantenevano tuttavia un legame forte con il nostro Paese – almeno nella scelta delle location – quest’ultimo «Bones and All» si spinge lontanissimo. Girato interamente negli Usa, con attori americani, e recitato in lingua inglese, il film è l’adattamento del romanzo omonimo della scrittrice statunitense Camille DeAngelis e racconta la storia di Maren (Taylor Russell), una ragazzina adolescente che vive con il padre nella periferia di Cincinnati all’apparenza timida, incapace di tessere relazioni e solitaria ma che invece nasconde un animo feroce e incapace – suo malgrado – di domare. Le vicende la porteranno a essere abbandonata dal padre e ritrovarsi a girare per l’America come una vagabonda in cerca della madre che non ha mai conosciuto. L’incontro con Lee (Timothée Chalamet), un ragazzo appena più grande di lei ma con la sua stessa indole selvaggia, le cambierà la vita.
Abbiamo evitato volontariamente di fornire troppi dettagli – soprattutto uno, anche se è qualcosa che si scopre quasi subito all’inizio del film – per non rovinare la sorpresa, tuttavia non possiamo non dire che «Bones and All» è un film crudo e per stomaci forti, ricco di sequenze truculente. Eppure non è un horror vero e proprio, ma piuttosto un dramma sentimentale in cui si respira una sorta di zeitgeist all’interno del quale la diversità e la “mostruosità” sono trattati come valori positivi. Mentre il mondo intorno diviene luogo in cui cercare il proprio modo di essere liberi e provare a diventare esattamente quello che si vuole essere. Guadagnino, che alla Mostra di Venezia ha vinto il premio alla regia, sembra recuperare le atmosfere della sua serie «We Are Who We Are» (2020, ne avevamo parlato qui) trasportando il racconto in un cinema di genere che guarda dritto verso la contemporaneità. E il risultato è davvero affascinante. Sarà un successo.
(dal 23/11)