In un’epoca in cui i film di genere sono sempre più ibridati e contaminati da istanze di ogni tipo, abbiamo scelto quattro film, in uscita in questi giorni, capaci ancora di muoversi nei confini riconoscibili della tradizione cinematografica.
«Il caso Belle Steiner» di Benoît Jacquot
Benoît Jacquot, veterano del cinema d’autore francese, da alcuni mesi è indagato per violenza sessuale in seguito alle accuse di alcune attrici che hanno avuto relazioni con lui in passato. Per questo motivo il regista – oggi settantottenne – è molto contestato all’interno dell’ambiente culturale francese e quest’ultimo film da lui diretto non ha trovato distribuzione in patria. Ed è in effetti impossibile non notare come «Il caso Belle Steiner» sia una sorta di film specchio, attraverso il quale Jacquot prova in qualche modo a rispondere alle pesantissime accuse che gli gravano sul capo. La storia infatti – tratta dal romanzo «La morte di Belle» di Georges Simenon del 1951 – racconta di un professore di matematica del liceo, Pierre (Guillaume Canet) che si trova accusato dell’omicidio di Belle, una ragazza adolescente figlia di un’amica della moglie (Charlotte Gainsbourg) che si era trasferita da loro da alcuni mesi per motivi di studio. Un sospetto, quello della colpevolezza o meno di Pierre, che il film trascina fino quasi allo stremo e al paradosso ma che a Jacquot (come a Simenon) non interessa risolvere, quanto usare come oggetto per osservare il mondo di oggi.
Più che un thriller giudiziario, «Il caso Belle Steiner» è infatti lo sguardo su una società che si trasforma in tribunale, per la quale l’immagine pubblica vale più di ogni altra cosa e dove non esistono sfumature. La regia è essenziale, evita facili spettacolarizzazioni e si concentra su dettagli minimi ma eloquenti: una pausa di troppo in un dialogo, uno sguardo che devia nel momento sbagliato, un silenzio che pesa più di mille parole. Mentre Pierre, interpretato da uno straordinario Canet, non mostra la minima emozione e appare come costretto a recitare una parte che non conosce. Il risultato è un film freddo e sospeso, quasi indecifrabile. Un noir esistenziale che non dà risposte e gioca sull’ambiguità inestricabile dell’animo umano. Un’opera in cui il mistero non è l’omicidio, ma la natura stessa della colpa e dove il dubbio, il sospetto, è il vero protagonista.
Durata: 1h 40
In programmazione: Capitol
«US Palmese» dei Manetti Bros.
Probabilmente è un sogno che tutti i tifosi di calcio, quelli più sfegatati, hanno avuto almeno una volta nella vita: fare una colletta tutti insieme (nel senso di tutti gli abbonati allo stadio, o almeno alla curva) e raccogliere una cifra sufficiente a pagare lo stipendio a un campione , un fenomeno che solo di fronte a somme stratosferiche potrebbe convincersi a spostarsi. Ed è l’idea, originale e un po’ folle, alla base di quest’ultimo film dei Manetti Bros., autentici (e forse ultimi) esponenti della grande tradizione del cinema di genere italiano. «US Palmese» racconta infatti di un paese della provincia di Reggio Calabria, Palmi, in cui a Don Vincenzo (Rocco Papaleo), vecchio tifoso della squadra locale (la Us Palmese appunto) viene la pazza idea di chiedere 300€ a ognuno dei suoi 18000 compaesani in modo da raccogliere i circa 5 milioni e mezzo di euro necessari a ingaggiare il fenomeno francese Etienne Morville (Blaise Afonso), talento purissimo e dal carattere impossibile, che nessun club di primo piano vuole più mettere sotto contratto per via delle sue intemperanze. Ovviamente l’impresa di Don Vincenzo riuscirà e il clima rilassato e autentico della provincia avrà un effetto terapeutico su Morville che nonostante i dissapori iniziali con i palmesi, finirà per affezionarsi e legarsi indissolubilmente alla gente del paesino calabrese.
Ed è proprio questa abilità dei Manetti di muoversi attraverso gli stereotipi e i cliché del genere senza abusarne o rimanerne vittime, a rendere «US Palmese» il film riuscito e intelligente che è. Quello che fanno i registi romani è usare il calcio come luogo comune per costruire una riflessione sul carattere culturale e sociale che veicola in un paese complesso come il nostro. Questioni come quella economica (diversi personaggi nel film notano come i soldi per Morville potrebbero essere spesi per altre cose più importanti, come ristrutturare l’ospedale) o legata allo scarso livello culturale che gravita intorno al calcio (il personaggio della poetessa interpretata da Claudia Gerini incarna questa prospettiva), vengono superate da quello che il calcio stesso è capace di rappresentare in quanto valore universale o elemento simbolico di riscatto, ambizione e realizzazione (dal basso). E in fondo proporre (e credere ancora) al pallone non solo come strumento di profitto sfrenato, ma come luogo in cui si riconosce una comunità, un collettivo, un pezzo d’Italia che resiste nonostante tutto, non è per niente un’idea banale. Nemmeno per una commedia.
Durata: 2h
In programmazione: Uci Orio/Arcadia Stezzano/Anteo Treviglio
«The Shrouds – Segreti sepolti» di David Cronenberg
Con «The Shrouds», David Cronenberg torna al suo territorio prediletto: quello del corpo e delle sue inquietanti e innumerevoli metamorfosi. Questa volta però la riflessione sulla morte si fa ancora più rigorosa del solito e ingloba l’ossessione tutta contemporanea per l’immagine e per il controllo. Il film racconta di un uomo d’affari, Karsh (Vincent Cassel), che persa da poco la moglie, decide di far sviluppare un sistema di telecamere a circuito chiuso in grado di riprendere in tempo reale, e 24 ore su 24, le salme all’interno delle bare, mostrando così la decomposizione delle carni. Quando attraverso queste immagini Karsh nota dei piccoli bozzoli attaccati alle ossa della moglie inizia a pensare che questi nascondano un mistero e siano in qualche modo collegati alla profanazione di alcune tombe (fra cui proprio quella della moglie) avvenute nel cimitero.
Al di là del carattere macabro e vagamente sinistro che la storia si porta con sé «The Shrouds» (letteralmente “i sudari”) offre una riflessione profonda sul modo in cui oggi il dolore e la morte sono diventati spettacoli, esposti e distaccati dall’esperienza umana. Lo schermo diventa una sorta di confine tra la vita e la morte e tra il desiderio di conoscere e il timore dell’ignoto. Quei piccoli nodi che il protagonista scopre sul cadavere decomposto della moglie e ai quali prova in tutti i modi ad attribuire un valore non sembrano in realtà significare nulla. E in questo senso la paura e lo sgomento che egli prova osservandoli e interrogandosi sul loro senso forse ha a che fare proprio con l’inconsistenza del mistero della morte: che denudata di ogni spiritualità mostra il suo volto più crudele, quello di un buio eterno e incommensurabile. Proprio come l’immagine digitale: un dispositivo che dà l’illusione di poter vedere ogni cosa e di rendere visibile l’invisibile ma dietro al quale non si nasconde nient’altro che la superficie fredda e candida di cui è fatta. Come quella di un sudario steso sopra a un corpo morto.
Durata: 1h 56
Dal 3 aprile
«Nonostante» di Valerio Mastandrea
Dopo l’esordio di «Ride» (2018), Valerio Mastandrea torna dietro la macchina da presa e confeziona un fi lm sorprendente, sospeso tra reale e surreale e tra il fantastico e l’introspezione. Racconta di un uomo (che non ha un nome ed è intrepretato dallo stesso Mastandrea) che passa le proprie giornate all’interno di un grande ospedale in cui è ricoverato. Non pare avere nulla di invalidante, eppure non può andarsene e insieme ad altri pazienti passa il tempo a chiacchierare, guardare gli altri malati e scherzare amaramente sul destino delle persone che come lui sono costrette in quel luogo di sofferenza. Il tempo non passa mai e i giorni sembrano uno uguale all’altro, ma l’arrivo di una nuova paziente (Dolores Fonzi), alla quale viene assegnata la stanza del protagonista (il quale con grande disappunto è costretto a traslocare), innesca una serie di cambiamenti che porteranno l’uomo a mettere in discussione tutta la propria esistenza.
Non vogliamo dire di più per non rovinare la visione, tuttavia «Nonostante» è un film che si fonda su una scelta narrativa precisa spinta fino alla fine, sulla quale costruisce una dimensione in bilico tra sogno e allucinazione, giocando con le percezioni dello spettatore. E che parla di dolore e di morte così come dell’importanza e dell’ineluttabilità delle scelte e dell’inaspettato che si nasconde nelle pieghe dell’esistenza. Il tutto però senza calcare la mano, senza esasperare le emozioni e affidandosi quasi interamente alla f orza espressiva del Mastandrea attore il cui volto, ormai talmente iconico da superare la dimensione dei propri personaggi, diventa quasi un luogo familiare, rassicurante. Un piccolo film che al netto di qualche schematismo e di una metaforizzazione forse eccessiva (soprattutto nella parte finale), riesce a parlare di temi profondi con efficacia, affrontando questioni come la sofferenza e la solitudine senza alcuna retorica e con uno sguardo originale.
Durata: 1h 33
Dal 27 marzo
In programmazione: Cinema Conca Verde