Se frequentate un po’ il mondo dei festival più o meno alternativi di Bergamo Alberto Valtellina lo avete sicuramente incrociato. Di solito è quello con la telecamera in mano, non ama farsi troppo vedere e se gli parlate non dà mai risposte troppo affrettate. Alberto, insieme all’architetto Paolo Vitali, ha fatto un film su due condomini in città: il “Terrazze fiorite” e il “Bergamo sole”, realizzati fra il 1976 e il 1980 dagli architetti Giuseppe Gambirasio e Giorgio Zenoni. È difficile spiegare come si faccia un film su un condominio, ma viene da dire che i due hanno le caratteristiche giuste: Alberto è un vero entomologo delle umanità più disparate e Paolo un architetto decisamente curioso. Dalle loro visioni incrociate è nato “Il condominio inclinato. Bergamo, sole, casbah, pollai e terrazze fiorite”, in anteprima (sold-out) al Conca Verde il 29 settembre e in replica il 6, il 12 e il 13 ottobre (qui il link per prenotare).
I due caseggiati nei primi anni dopo la costruzione venivano chiamati “pollai”, oggi pare siano fra le abitazioni più ricercate di Bergamo. La particolarità è che non sono condomini verticali, ma orizzontali, e tra vialetti e giardini formano una specie di piccolo villaggio nella città. Insomma non c’è il famigerato pianerottolo, ma spazi che facilitano la socialità. “La produzione di questo film è cominciata nel 2018 – racconta Alberto – un lavoro di due anni che ha fatto i conti con il lockdown, come il precedente ‘Le traversiadi’, che è stato ben accolto dal pubblico fino allo stop”. Gli fa eco Paolo: “La mia curiosità per questi complessi nasce nei primi anni 2000. Più avanti, dopo aver conosciuto personalmente gli autori, Giuseppe Gambirasio e Giorgio Zenoni, ho iniziato a guardarli con maggiore consapevolezza e ad apprezzare ancora di più la loro dimensione sperimentale”. Ovvero “alcune incongruenze e quello strano mix tra megastruttura e vernacolo, tra gli ultimi brandelli di utopia della fine degli anni 70 e la tranquillizzante ipocrisia del ritorno alla tradizione dei primi anni 80, che li rende un perfetto ibrido. Si tratta a mio avviso di uno di quei posti la cui frequentazione aiuta a comprendere come il giudizio su un’architettura residenziale non possa mai essere tranchant e vada sempre tenuto un po’ in sospeso”.
Provenienze culturali diverse, precedute da un periodo di tempo in cui i due si sono annusati. “La prima collaborazione con Paolo è stata nel 2004, quando avevamo organizzato la proiezione del film ‘Stalker’ negli allora evocativi ambienti dell’ex cementificio di Alzano. Lui aveva svolto una ricerca all’interno dei due condomini, me ne ha parlato, mi ha mostrato alcuni documenti e immagini fotografiche che aveva ripreso, gli ho subito proposto di lavorare insieme a un film sull’argomento”. “Alberto per me è stato importante – continua Vitali – L’amicizia e la curiosità reciproca hanno creato le premesse sulle quali si è costruito lo spazio di sperimentazione necessario per affrontare insieme progetti come questo”.
Il risultato può forse essere sintetizzato nella parola “esperienza”: “Esperienza è una delle parole chiave di questo lavoro– raccoglie Paolo – Ovvero ciò che determina il confine tra qualcosa che ha a che fare con la vita e qualcosa che è semplice e arida restituzione di forme geometriche. L’architettura residenziale ha infatti un grande ‘difetto’ intrinseco: serve per fare abitare le persone. Non solo deve essere adatta a degli usi e delle funzioni, ma deve saper accogliere stili di vita diversi, esperienze per l’appunto. E nel fare ciò perde la sua purezza”. Di conseguenza “riuscire a raccontare questo aspetto dell’architettura, non al di là delle forme, ma insieme alle forme, nell’interazione con le forme, è la sfida che ci siamo posti con questo progetto. Fare emergere ‘una dimensione sociale dello spazio’, restituire – attraverso l’esplorazione dei luoghi della vita di tutti i giorni – una sua antropologia”.
Ciò che emerge dal film infatti non è solo la particolarità dei luoghi (case separate da vialetti come falsipiani in un mix tutto sommato equilibrato fra spazi verdi e cemento armato). “Il condominio inclinato” è anche un’indagine sulle persone che abitano quei luoghi, “che io definirei eterogenee. Non abbiamo cercato il contatto con figure ‘particolari’ – spiega Valtellina – al contrario abbiamo seguito una linea dettata dal caso e dagli incontri successivi, senza tesi, forse il luogo condiziona l’abitare, ma forse semplicemente è stato per noi un privilegio incredibile avere l’attenzione e la disponibilità di persone interessantissime. Vero che Simone, il collezionista di vasetti di Nutella, non poteva sfuggire alla nostra bizzarra curiosità”.
Dal film emerge tutta la peculiarità del cinema di Valtellina, che ha sempre un valore culturale e antropologico e spesso cerca l’umanità dentro gli spazi. In questo i due si sono trovati, come racconta Vitali: “Per me è stato evidente fin da subito che la dimensione da indagare fosse quella antropologica: una questione di cultura dello spazio più che di una sua descrizione. Troppe volte recentemente l’architettura è stata fotografata e ripresa senza la presenza umana, come un fatto autonomo”. A proposito di antropologia, quando incontro Alberto gli dico sempre che i suoi film mi ricordano l’Herzog documentarista, anche se decisamente più cauto. Lui però indica altri riferimenti: “Negli anni Ottanta ho iniziato a occuparmi e a vivere di fotografia, perché mi pareva un buon modo per mettermi in contatto con il mondo. Poi è arrivato il digitale e ho spostato la mia attenzione sul cinema. Ho avvicinato il cinema materialista, documentario, la visual anthropology, la ricerca etnografica, ho digerito tutto senza legarmi a nulla. Forse l’unico riferimento a cui sono davvero fedele è il cinema di Jean-Marie Straub e Danièle Huillet”.
“Il condominio inclinato” è una pellicola tipicamente valtelliniana anche per altri motivi: in primis è poco scritta, i soggetti sono colti nella realtà dello spazio in cui vivono. “I miei lavori appaiono poco prodotti e poco scritti, ma sono il frutto di lunghi tempi di elaborazione. Prima di effettuare riprese cerco sempre di chiarire meglio possibile i temi da affrontare e le modalità con cui procedere alla produzione. Poi sì, quando tutto è chiaro, si può improvvisare, ‘osare’, perché si sa cosa serve e cosa no”. Da cui le inquadrature raramente canoniche: “derivano dal reportage fotografico, basta che siano interessanti e espressive, equilibrate o squilibrate, credo non ci sia sempre bisogno di una macchina da presa a bolla o di una steadycam, tantomeno di un drone”.
C’è poi l’audio, rigorosamente ambientale: “sono orgoglioso di dire che avevo già quarantotto anni quando per la prima volta ho inserito musica extra diegetica in un mio film e ancora oggi cerco di non abusarne. Devo essere artigianale per forza e per amore: per ‘Il condominio inclinato’ ho curato il video e l’audio in presa diretta delle interviste a camera fissa, mentre le migliori riprese a mano sono di mio figlio Carlo. Le mie riprese a mano col tempo diventano sempre più e sempre troppo ‘espressive’”.
A fronte di tutto questo viene da chiedere che cosa ne pensi lui – che è stato anche produttore e distributore – del cinema oggi, fra produzioni ricche di effetti speciali e 3D. “Sono affascinato dal livello tecnico altissimo di alcune produzioni e ne percepisco il lavoro artigianale anche quando l’artigiano è un nerd informatico. Credo che le grandi produzioni servano a fare vivere i cinema. La più grossa preoccupazione oggi è infatti, paradossalmente, la mancanza di grossi film per le sale”. Sì, ma cosa è oggi il cinema nel tempo delle piattaforme streaming? “Il cinema deve avere uno schermo il più grande possibile, un bel proiettore, un bell’impianto audio e almeno 90 poltroncine. A casa uno può bere birra e mangiare patatine in mutande davanti a un grande schermo: non è cinema. E lui dovrebbe vergognarsi!”.