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Claudio Santamaria e Alessandro Tonda raccontano «Il Nibbio», il film su Nicola Calipari

Intervista. Regista e attore protagonista parlano del film «Il Nibbio» che unisce generi diversi per raccontare la storia Nicola Calipari intessuta di giustizia e sacrificio.

Lettura 4 min.

Quattro febbraio 2005. La giornalista del Manifesto Giuliana Sgrena viene rapita da un gruppo paramilitare a Baghdad, mentre scrive un’inchiesta sulle condizioni della popolazione irachena sotto l’occupazione americana, iniziata nel 2003. La sparizione di Sgrena mobilita l’Italia intera, mentre il SISMI (gli ex-servizi segreti) dà inizio a una trattativa serrata con un gruppo sunnita anti-americano per la liberazione della reporter. A condurre questa trattativa è “il Nibbio” Nicola Calipari, un alto dirigente specializzato nella negoziazione con i terroristi. La storia di Calipari viene magistralmente ricostruita in «Il Nibbio», pellicola di Alessandro Tonda con Claudio Santamaria al cinema dal 6 marzo. Proprio in questi giorni, regista e attore protagonista stanno girando l’Italia per incontrare i fan nelle sale cinematografiche: domenica 16 marzo sono stati al cinema Arcadia di Stezzano, dove noi di Eppen abbiamo potuto intervistarli. Con loro, abbiamo parlato dell’eredità di Nicola Calipari, della difficoltà nel raccontare una ferita aperta della cronaca italiana e dell’inedita commistione di generi - spy story, drammatico, sentimentale e war movie - che fa da fondamento a «Il Nibbio».

Raccontare il “Nibbio”: parla Claudio Santamaria

B.A.: Iniziamo da te, Claudio. Come si fa a mettere in scena una figura come Nicola Calipari? Hai sentito della pressione, vestendo i suoi panni?

C.S.: Sì, sicuramente un po’ di pressione c’era. Un po’ di responsabilità, soprattutto: nei confronti della famiglia, perché questo è il primo tributo, la prima restituzione sulla vita di Nicola Calipari. Quando ho incontrato Rosa Villecco Calipari, la vedova di Nicola, ero molto agitato, mi chiedevo cosa pensasse di me, di vedermi nei panni di suo marito. Però volevo rendergli giustizia, quindi mi sono gettato a capofitto nello studio del “Nibbio” come persona. L’ho fatto attraverso la sceneggiatura del film, che tratteggia in modo molto realistico il personaggio, e poi tramite il racconto di Rosa e il confronto con gli agenti del SISMI.

B.A.: E come hai immaginato Nicola Calipari?

C.S.: La caratteristica che più ho voluto mettere in scena è la sua fermezza dolce, che passa per un forte senso dello Stato e una profonda ironia, ma anche per una grande umanità. I racconti di Rosa mi hanno aiutato molto a ricostruire l’uomo dietro al funzionario, l’amorevole padre di famiglia e il marito sempre presente: come coppia erano molto affiatati. Ho studiato Nicola da giovane, quando ha lasciato la professione di avvocato per non dover difendere i boss della ‘ndrangheta. Proprio questa repulsione lo ha portato a entrare in polizia, e da lì ha sempre compiuto delle scelte che hanno messo al primo posto la protezione della vita umana. Mi sono anche preparato dal punto di vista fisico: per interpretare Calipari sono dimagrito molto, perché volevo che la sua figura sullo schermo sembrasse esile. Non tanto per somiglianza, ma perché la sua qualità distintiva era il dialogo, l’intelligenza. Non certo la forza: non volevo che avesse un corpo muscolare.

B.A.: Quale studio si trova alle spalle del Nicola Calipari che vediamo in «Il Nibbio»?

C.S.: Innanzitutto abbiamo fatto un’analisi della sceneggiatura, quindi abbiamo sezionato il testo, le scene, le battute, e abbiamo analizzato le motivazioni che portano il personaggio a pronunciare proprio quelle parole o a compiere proprio quei gesti. E poi abbiamo cercato di capire quali fossero il suo sogno, il suo “karma”: nel mondo della recitazione lo chiamiamo tragic flow, intendiamo il destino del personaggio, le forze che deve combattere, i suoi antagonisti, i suoi ispiratori, i suoi mentori, i suoi princìpi, i suoi valori, il suo bisogno primario, la forza che lo spinge ad agire. Mi sono chiesto: cos’è che mi aggancia a quest’opra? Perché voglio fare questo film? Quali sono i valori che condivido con Nicola Calipari?

B.A.: E quale risposta ti sei dato?

C.S.: Con Calipari condivido il senso di giustizia, di verità e di protezione. Ma anche il valore cardine che do alla vita umana come valore da anteporre a qualsiasi egocentrismo individuale. Questi sono i valori che mi hanno agganciato emotivamente al personaggio. L’idea di poter celebrare un’anima così grande del nostro Paese mi onora: vorrei che il Nibbio fosse un esempio per tutti i funzionari dello Stato.

Un film che trascende i generi

B.A.: Alessandro, «Il Nibbio» è un’opera che spazia moltissimo tra i generi, dal poliziesco al dramma sentimentale fino al film di guerra. Come siete riusciti a bilanciarli l’un l’altro?

A.T.: «Il Nibbio» non è un film di un solo genere, unisce diversi linguaggi e diverse idee. Per come sono fatto, per come lavoro, non mi piace cercare di incasellarmi in un genere preciso e non mi piace cercare riferimenti e citazioni nel lavoro altrui. Quando mi sono approcciato alla pellicola, mi sono subito chiesto quale direzione prendere, anche perché mi sono trovato di fronte a un grosso problema narrativo: chi guarda sa già come finisce la tragica storia di Calipari, quindi non potevamo usare la suspance per tenere lo spettatore incollato allo schermo. Allora abbiamo usato la mescolanza tra i generi per sostenere la narrazione. Poi ci siamo avvalsi di un consiglio che ci hanno dato gli agenti del SISMI, che ci hanno proposto di guardare la serie francese «Le Bureau des légendes», perché ricostruiva in modo molto fedele la loro vita.

B.A.: «Il Nibbio» è il tuo secondo lungometraggio da regista. Ma nella tua carriera hai lavorato molto come aiuto regista per produzioni come «Romanzo Criminale», «Gomorra», «Suburra» e la serie «Suburræterna». Hanno influenzato il tuo approccio a questo film?

A.T.: Il mio percorso come aiuto regista mi ha portato a lavorare tanto sulla serialità del genere crime e di quello action, quindi quelle suggestioni che troviamo in «Il Nibbio» le ho sempre sentite nelle mie corde. Nel «Nibbio» c’è anche un po’ del mio primo film, «The Shift», ovvero la volontà di fare un cinema di intrattenimento ma che non resti in superficie, che approfondisca dei temi delicati - o che, almeno, accenda un faro su di essi.

…E il futuro?

B.A.: Un’ultima domanda per Claudio: proprio in questi giorni è uscito l’ultimo film di Gabriele Mainetti, con cui hai collaborato per «Lo Chiamavano Jeeg Robot» e «Freaks Out». Che ne pensi?

C.S.: Purtroppo non ho ancora visto «La Città Proibita». Ma posso dire che io e Gabriele siamo grandi amici, lo stimo tantissimo. Mi piace molto lavorare con lui perché mi porta sempre a fare cose fuori dalle mie corde. Per «Jeeg», per esempio, ha preso il mio carattere espansivo e socievole e lo ha rinchiuso in una corazza di muscoli, in un personaggio silenzioso. Ha scelto Luca Marinelli, che è molto timido, e gli ha fatto interpretare Lo Zingaro (l’antagonista di «Lo Chiamavano Jeeg Robot», ndr), che invece è estroverso, esteriore, colorato.

B.A.: Avete qualcosa in programma per un seguito di «Lo Chiamavano Jeeg Robot»?

C.S.: Io rompo sempre le scatole per «Jeeg 2», ma lui mi dice che non riesce a trovare un cattivo all’altezza. Un grande film non riesce se non c’è un grande antagonista. Quindi aspettiamo!

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