La Grecia è uno dei paesi che ci somiglia di più in assoluto. Il famoso detto “una faza una raza”, popolare tanto in Italia quanto nel paese ellenico e delle cui origini non c’è troppa certezza, dice molto del radicamento di questa affinità. E ben prima che la crisi mondiale accomunasse i due paesi in fondo alla classifica delle economie virtuose del blocco delle nazioni dell’UE – tanto che l’Italia si contende da anni con Spagna e Portogallo l’infausta previsione di essere “la prossima Grecia” – migliaia di anni di cultura, storia, arte, tradizione e eredità linguistiche hanno legato le due grandi protagoniste della storia del Mediterraneo.
È davvero singolare quindi, come una delle cinematografie più interessanti e significative di questi ultimi anni – quella greca appunto – celebrata dalla critica e dai festival internazionali di tutto il mondo, abbia avuto una diffusione così avara nel nostro paese.
L’uscita al cinema di “Miserere” del regista greco Babis Makridis è l’occasione per parlare di alcuni dei registi ellenici che hanno reinventato il cinema greco degli ultimi dieci anni, facendolo diventare un modello, uno stile spesso imitato e che ha attirato l’attenzione di spettatori e addetti ai lavori in ogni parte del mondo. Una specie di new wave che dopo la tragica scomparsa di Theo Angelopoulos, il più grande regista greco di sempre morto nel 2012, ha sviluppato una identità nuova, solida e appassionata. E che non si ferma al solo Lanthimos.
“Kynodontas” di Yorgos Lanthimos (2009)
Già, Lanthimos. Il regista più celebrato, l’icona del cinema greco contemporaneo e il suo esponente più significativo. “Kynodontas” uscito nel 2009, solo qualche mese prima che scoppiasse la devastante crisi economica, riflette molto dello stato emergenziale in cui il paese ellenico stava per precipitare.
Storia fra il distopico e la black comedy di due genitori che – attraverso un clima di menzogne e terrore – tengono i tre figli, ormai adulti, segregati nella grande villa di famiglia sin dall’infanzia per proteggerli dal mondo, è un’opera cruda e disturbante.
Il tema dell’educazione e della famiglia come microcosmo che imprigiona e isola dal mondo esterno diventano il veicolo per tematizzare la rottura della successione generazionale e l’impossibilità di una maturazione sociale. L’incomunicabilità fra genitori e figli, l’incapacità di affrontare il cambiamento, il disprezzo e la sfiducia verso le giovani generazioni e l’arroccamento su posizioni conservatrici miopi (il padre nel film non pensa minimamente cosa ne sarà dei figli dopo che lui e la moglie non ci saranno più), rendono “Kynodontas” un grandissimo film, che nel 2009 parlava al futuro e metteva sul tavolo temi attuali e cogenti non solo per la Grecia, ma per l’Europa intera.
“Miss Violence” di Alexandros Avranas (2013)
Considerato da molti il fratello gemello di “Kynodontas”, “Miss Violence” – vincitore del premio per la regia al festival di Venezia e distribuito da noi nel 2013 – ha in effetti molto in comune con il film di Lanthimos. La storia è ancora quella di una famiglia in cui l’anziano padre costringe figlie e nipoti (alcune delle quali giovanissime) a rapporti sessuali con lui e altri uomini.
Il suicidio dell’undicenne Angeliki – con cui il film si apre – innescherà una catena di eventi che potrebbero cambiare le cose. Di nuovo un padre-padrone carnefice e incestuoso, una famiglia disfunzionale e isolata dal mondo e un mondo di abiezione, violenza e barbarie celate dietro una porta chiusa.
Il film di Avranas rispetto a quello di Lanthimos è però lucidamente pensato come il ritratto in forma metaforica della Grecia della crisi. Una nazione che come un nucleo familiare deviato cela al resto del mondo la propria natura corrotta e più tenta di risanare le proprie ferite, più le cose peggiorano fino all’irreparabile. Il tutto mentre fuori nessuno si accorge di niente (i vicini e gli assistenti sociali che nel film non capiscono nulla, ricordano la cecità degli ispettori UE che non hanno mai capito i segnali dell’implosione) e dentro casa, per dimenticare, si ascolta Toto Cutugno a tutto volume. “Buongiorno Italia”, che si sente nel finale del film, più che un omaggio è quasi una premonizione.
“Pazza idea” di Panos H. Koutras (2014)
Da Toto Cutugno a Patty Pravo il passo è brevissimo. Perché in “Pazza idea” – in originale “Xenia” – la cantante italiana compare nel ruolo di se stessa. E di musa ispiratrice di uno dei due giovani protagonisti, Dany, che col fratello Odysseas si mette in viaggio prima da Creta verso Salonicco per cercare il padre che l’ha abbandonato da piccolo e partecipare a un talent show esibendosi con la canzone che dà il titolo al film.
Il film di Koutras non ha lo stile cinico-glaciale di Lanthimos e Avranas e alla disgregazione della famiglia come metafora della disgregazione sociale contrappone il colore e la speranza della musica, della cultura queer e di quella pop. Per questo motivo il film è qualcosa di unico, capace di rileggere la tradizione del mito e della tragedia greci, fortemente radicati nella cultura ellenica, alla luce della modernità e delle istanze sociali – ma anche drammaturgiche – più contemporanee. Dimostrando l’eterogeneità dei linguaggi e delle forme di un cinema che sta diventando sempre più complesso.
“Attenberg” di Athina Tsangari (2015)
Athina Tsangari, diplomata in regia negli Usa e assistente di Richard Linklater e produttrice di Lanthimos, unica regista donna di rilievo del cinema greco di oggi, è anche una delle personalità più eminenti in assoluto.
“Attenberg” il suo secondo film – in concorso a Venezia nel 2014 – racconta la storia della ventenne Marina, anaffettiva, misantropa e incapace di intrattenere veri rapporti sociali. Mentre assiste il padre, malato terminale di cancro, inizia una relazione con un collega di lavoro, scopre per la prima volta il sesso e comincia lentamente a uscire dal proprio guscio. Senza più genitori, appassionata di documentari sulla natura, Marina è come un animale selvatico (e nel film la vediamo comportarsi spesso come tale): vive di istinti primari e ha paura di tutto ma è in grado di prendersi il proprio posto nel mondo.
Tsangari racconta una generazione senza punti di riferimento, senza guide e senza fiducia mostrandone l’originale caparbietà e mettendone in risalto l’inconsapevole coraggio. Concedendo speranza e dignità a coloro cui la crisi ha tolto tutto, compreso il futuro.
“Miserere” di Babis Makridis (2019)
Sardonico e iperrealista e Babis Makridis sembra estremizzare oltre ogni limite il cinismo tragico à la Lanthimos. Arricchendo di umorismo nero un impianto narrativo già decisamente sbilanciato verso la surrealtà.
“Miserere”, scritto con Efthymis Filippou – sceneggiatore di Lanthimos – racconta di un uomo che a causa del grave stato di salute in cui versa la moglie, inizia a godere in maniera insana del sentimento di pietà che le persone gli mostrano, diventandone ben presto dipendente. Makridis mette in scena la vita di uomo benestante, che non ha problemi economici e conduce una vita apparentemente realizzata, ma ha invece bisogno della “tragedia” per provare qualcosa.
Oltre che una specie di messa in forma contemporanea della nevrosi isterica, quella che il regista rappresenta è una sorta di catatonia sociale post-crisi, risultato di un sonno collettivo che ha generato mostri e che fa della contemporaneità uno spazio assente, un limbo in cui la ricerca di emozioni forti – e di grandi tragedie – sembrano essere le uniche risposte possibili.