Da qualche tempo il cinema italiano si sta occupando degli immigrati di seconda generazione, figli di immigrati giunti in Italia per sfuggire alla povertà, a dittature, alla guerra e all’impossibilità di vivere nella propria terra a causa del cambiamento climatico. A volte integrati, a volte meno, i seconda generazione (la definizione non è forse una discriminazione?) assorbono gli accenti del nostro Paese e ne ibridano i costumi con i loro, in quel difficile processo di accoglienza e comprensione che è l’integrazione. Hleb Papou, regista italiano ma di origini bielorusse, racconta proprio una storia di integrazione in forma di simil-tragedia – evitando retoriche, pietismi e approcci ideologici – ne «Il legionario», premiato a Locarno l’anno scorso con il Premio Regista Emergente. Un film uscito in sala a febbraio e come spesso accade subito scomparso, che torna meritoriamente per un’importante prima a Bergamo grazie a IFF – Integrazione Film Festival, evento di apertura della rassegna il prossimo 10 maggio.
Importante perché a un film prezioso come «I miserabili» di Ladj Ly, che racconta il difficile rapporto fra immigrati e polizia nelle banlieue parigine (una Parigi tutt’altro che grandeur e lustrini), Papou risponde con la vicenda di due fratelli figli di immigrati, Daniel (Germano Gentile) e Patrick (Maurizio Bousso): il primo arruolato in una squadra della celere, spesso chiamata a sgomberare immobili occupati abusivamente, a cui i colleghi non mancano di rimarcare il suo essere «negro» – generando, seppur goliardicamente, quello che diviene a tutti gli effetti uno stigma; l’altro costretto a vivere in una casa occupata dal 2005, con la madre, altri immigrati, ma anche alcuni italiani, tutti accomunati da una forte risentimento verso la legge e la politica che promette e non mantiene. Papou racconta la vicenda senza solidarizzare con l’una o l’altra parte, cosa che aiuta a mettere in evidenza le contraddizioni di un sistema che non funziona, in primis sotto l’aspetto umano e civile.
Daniel e Patrick parlano con accento romano, ma la Roma raccontata da «Il legionario» non ha nulla a che fare con «La grande bellezza» sorrentiniana e neppure con la “meraviglia dei margini” del «Sacro GRA» di Gianfranco Rosi, ma è invece una periferia dove a ripetersi sono palazzi disgraziati, strade sporche e locali tutt’altro che promettenti. Insomma, la città oltre l’idea un po’ ipocrita e molto turistica di città-salotto, dove il confine fra legalità e umanità (leggasi il diritto a un tetto dignitoso) è all’ordine del giorno, una dinamica che vale per Roma, come per Milano e altre città italiane, europee e non solo.
Ne «Il legionario» c’è «ACAB» di Sollima, per certi aspetti una serie tv come «Fauda», ci sono atmosfere livide e tensioni in crescendo, rivoli di storie famigliari barcollanti che s’intrecciano ai contrasti interiori di un uomo consapevole che dovrà sgomberare suo fratello e la madre. Più di tutto c’è la franchezza spigolosa di un racconto che nel mettere in scena un dramma famigliare fotografa il problema delle periferie, quello delle case sfitte e occupate nelle grandi città e il difficile percorso verso l’inserimento in società. Soprattutto quando le Istituzioni sembrano rispondere a problemi reali solo con il manganello e la perdizione illegale di persone che si sentono abbandonate da tutto e da tutti – trovando nell’occupazione di uno stabile disabitato e rimesso in sesto un’affermazione di sé – non aiuta un dialogo che di fatto non esiste.
Non ci sono personaggi totalmente positivi ne «Il legionario», ciascuno nel proprio ruolo è un essere umano che cerca di fare del suo meglio ma a volte fa del suo peggio. Ed è forse la scena di un sacerdote inviato da Papa Francesco a rimettere in sesto il generatore di corrente elettrica del palazzo occupato l’unica luce positiva in un pantano da cui sembra difficile uscire – forse anche perché a chi comanda fa comodo che ci sia sempre qualcuno che in quel pantano ci rimanga. Quel Papa Francesco che più volte ha ricordato come sia profondamente cristiano accogliere lo straniero, chiunque esso sia. E a cui nel film viene dedicata una canzone dal cantautore Ivan Talarico, dal titolo «Dio è luminosa assenza».
Ne cito alcuni stralci (il testo intero è qui), perché dicono in modo semplice, ironico e arguto una cosa su cui se si non si è d’accordo è perché si sta mentendo a sé stessi, a sé stessi proprio come uomini (e chi non crede sostituisca «Dio» con «umanità», il significato cambia di poco): «Francesco, / hanno staccato la luce / e se Dio è luce /ci hanno staccato Dio. // A volte Dio è luce elettrica, / a volte Dio è acqua calda, / a volte Dio è un frigorifero, / a volte Dio è un termosifone». La scena sembra una di quelle secondarie nell’economia del film e scappa via velocemente. Ma è forse in questo lampo il significato de «Il legionario»: se «ci hanno staccato Dio», è tragicamente “normale” che due fratelli si facciano la guerra.