93FE310D-CB37-4670-9E7A-E60EDBE81DAD Created with sketchtool.
< Home

#bestof2023: Cosa faresti se non dovessi lavorare? La libertà secondo il docufilm «Afterwork»

Articolo. Un viaggio a più voci ai quattro angoli del mondo per indagare il futuro del lavoro e del suo spazio nelle vite delle persone, tra Italia, Stati Uniti, Kuwait e Corea. Il documentario del regista Erik Gandini è in programma al Conca Verde il 26 settembre per la rassegna «Open your eyes». Un film che davanti alla rivoluzione tecnologica esplora futuri possibili e spazi di cambiamento radicale per rifondare una società

Lettura 4 min.
«Afterwork» (Cred Fasad, Fredrik Wenzel)

«Inserire il denaro o la tessera» ripete senza interruzione una voce metallica al casello dell’autostrada ad ogni auto che si avvicina. Alcuni addetti alla riscossione dei pedaggi ci sono ancora, ma molti sono stati sostituti da macchine come questa. In diversi supermercati alcune casse automatiche hanno rimpiazzato parte del personale ed entro il 2033 c’è il 97% di possibilità che operatori e operatrici scompaiano del tutto. Una percentuale che sale al 99% quando si parla di venditori di assicurazioni o addetti al telemarketing che potrebbero essere rimpiazzati dagli algoritmi.

Questi sono alcuni dei dati emersi da «ll futuro dell’occupazione», uno studio di Carl Frey e Michael Osborne, due ricercatori di Oxford che hanno analizzato la possibilità che diverse figure professionali possano essere sostituite da algoritmi artificiali e automazione entro il 2030. Il numero di posti di lavoro potrebbe diminuire, quello di chi non lavorerà o lavorerà di meno aumentare e la società a cui siamo abituati si troverà ad affrontare grandi trasformazioni.

«E quando questo avverrà cosa faremo?». Una domanda che ha guidato il regista Erik Gandini nel realizzare «Afterwork», un documentario che è un’esplorazione per immagini del mondo del lavoro, della sua etica e della sua capacità di definire (o meno) ciò che siamo. Se lo sguardo dominante su questo futuro prossimo si orienta spesso su scenari distopici e apre riflessioni di taglio economico e sociopolitico, quello del regista si concentra sull’aspetto esistenziale. «Chi saremo quando non dovremo più lavorare?».

Questioni che Gandini approfondirà martedì 26 settembre alle 21 al cinema Conca Verde, dove presenterà il suo film nell’ambito della rassegna «Open your eyes» e dialogherà con Malcolm Cosenza del Circolo Arci Base di Palazzolo sull’Oglio e Lucia Di Cola, studentessa di sociologia e militante nelle realtà studentesche.

Esplorare il presente del lavoro per interrogarsi sul suo e nostro futuro

Negli 81 minuti della pellicola dell’autore di film come «La teoria svedese dell’amore» e «Videocracy», il pubblico si trova a fare un viaggio che dall’Italia dei NEET, giovani che non studiano e non lavorano, conduce nella «No vacation nation», ossia gli Stati Uniti, tra il mito del sogno americano e l’assenza di una legge che imponga ferie retribuite, per arrivare poi in Corea: qui il boom economico ha generato una cultura del lavoro tossica, che il Governo sta cercando di arginare bloccando i computer sui posti di lavoro alle 18 per impedire alle persone di continuare a lavorare e promuovendo il tempo libero con spot televisivi, mentre in Kuwait l’esubero di personale fa sì che molti si trovino alla scrivania in uffici pubblici pagati per non fare nulla. E poi ci sono le voci di filosofi, che aprono spazi di riflessione, dati e previsioni statistiche su un mondo in divenire. Non mancano, infine, i contributi di privilegiati: ricchi ereditieri che fanno solo ciò che desiderano o che, pur non avendo obbligo di guadagnare denaro, adottano un’etica del lavoro quasi ossessiva.

«In questa esplorazione l’intento non è registrare il presente, ma dire qualcosa sul futuro, cercando di ritrarre la realtà come potrebbe essere – spiega il regista, che è anche professore di cinema documentario alla Stockholm University of the Arts – Questo film è parte di un progetto più ampio, “The future to the present”, con cui come scuola d’arte cerchiamo di espandere il genere del documentario, lavorando su un’idea, quella del lavoro e della sua evoluzione nel domani».

Un approccio che non può che partire dal dato attuale: dalla visione di ciò che è il lavoro, toccando temi come il reddito di base universale, lo status e la pressione sociale legata all’identificazione con la propria professione, la libertà di scelta, maggiore o minore, il rapporto con la salute fisica e mentale, gli affetti e le passioni. Un documentario che genera interrogativi e che non intende dare risposte: «riusciremo a liberarci dal “workismo”, la convinzione quasi religiosa che il lavoro debba essere il fulcro della nostra esistenza? O continueremo a lavorare per il gusto di lavorare?» si chiede e ci chiede il regista.

Dall’etica del lavoro alla libertà che nobilita le persone

In questo contesto le variabili culturali giocano un ruolo cruciale nel definire l’etica del lavoro, spostandosi da un ufficio grigio illuminato dalla luce artificiale in Corea a realtà vicinissime: «sono cresciuto a Bergamo, figlio di una persona che ha lavorato fino a 84 anni con piacere – racconta Gandini – anche io ho vissuto di eccessivo lavoro, pur riconoscendo di avere il privilegio di fare qualcosa che amo; mi sono sentito un padre noioso e assente, assorbito totalmente da quello che facevo e incapace di liberarmi da certe strutture. Sono il risultato sia di una cultura come quella della Svezia, dove vivo da tempo e dove si può cambiare tranquillamente carriera a 35 anni perché ci sono sussidi per lo studio, sia della società italiana, dove c’è ancora molta paura del futuro e dove si pensa ancora tanto a studiare qualcosa che ti dia un lavoro, anche se poi magari non si ha scelta e ci si trova a fare qualcosa che si odia o in condizioni pessime. Fortunatamente qualcosa si sta muovendo, soprattutto nelle nuove generazioni».

Secondo il report di Gallup citato nel film, l’85% di chi lavora non è coinvolto in ciò che fa ed è demotivato. «Cosa faremmo se a chiunque fosse dato spazio e fiducia per fare quello che più piace?» si domanda Gandini. E una riflessione su questo interrogativo arriva dalla filosofa Elizabeth S. Anderson, che nel film si concentra su quanto sia limitante un sistema educativo iper-nozionistico come quello asiatico dove conta solo rispondere in modo corretto: «Non siamo fatti solo per quello – spiega il regista – dovremmo affacciarci al mondo con domande aperte, non con la sola risposta corretta. Questa è la bellezza in cui mi riconosco».

Secondo Gandini «un tipo di approccio così rigido, insieme all’idea che il lavoro nobiliti l’uomo, non ha giovato alle persone, ma al capitalismo e ai pochi. Sentirsi migliori perché si lavora sodo ci ha ingannato. Credo sia la libertà a nobilitare. Quella libertà su cui si potrebbe costruire un’altra società, rispetto a quella di oggi, che è ancora tanto fondata sul lavoro. Una società in cui lavorare di meno e prendersi cura degli altri, attività che, nel paradosso di essere tra le meno pagate, è anche quella che una macchina non potrebbe mai fare».

Approfondimenti