Manca ancora un mese e mezzo alla cerimonia degli Oscar 2023 (sarà il 13 marzo) ma i cinefili non devono aspettare così a lungo per vedere in sala le pellicole più chiacchierate, apprezzate o premiate della stagione. In queste settimane infatti sono in arrivo titoli molto attesi e noi ve li raccontiamo.
«Aftersun» di Charlotte Wells
«Aftersun» è il film rivelazione del 2022, ma se ne sta parlando molto in questi primi giorni del 2023, anche grazie alla piattaforma MUBI. Opera prima della semisconosciuta regista scozzese Charlotte Wells, passato senza tanti clamori in una delle sezioni parallele del festival di Cannes lo scorso maggio e diventato oggetto d’interesse dopo che la celebre rivista cinematografica britannica Sight & Sound l’ha inserito – a sorpresa – fra i migliori film dell’anno.
Racconta la storia, autobiografica, di una ragazzina di undici anni di Glasgow, Sophie, che sul finire degli anni Novanta passa con il giovane padre – separato dalla madre – una settimana in un hotel all-inclusive nel sud della Turchia. Sembra una normalissima vacanza padre-figlia eppure una vena di tristezza, appena accennata, si insinua nella routine e nel rapporto fra i due. A distanza di anni poi, Sophie, anche lei madre di una figlia appena nata, ricorderà quei giorni passati con il padre – e di cui ha fissato alcuni momenti sul nastro di una videocamera – con forte malinconia. Non aggiungiamo altro sulla trama, ma in realtà ciò che succede è importante fino a un certo punto. Proprio perché quello di Wells è un film di sensazioni. Di emozioni che nascono da azioni e gesti semplici, sfumati: quasi banali ma che si caricano di significato con l’avanzare del racconto.
Non è un cinema particolarmente originale o innovativo quello della regista scozzese e a ben guardare di film costruiti con questo incedere narrativo e che coniugano la drammaticità del contenuto con un’apparente leggerezza di sguardo ce ne sono tonnellate, da Rohmer in avanti. Tuttavia Wells è brava a confezionare con pochissimi elementi un’opera piena di cose nella quale, proprio per la sua estrema semplicità, chiarezza e universalità, chiunque può ritrovare qualcosa di personale o che gli somiglia. Provando emozioni forti.
(MUBI)
«Babylon» di Damian Chazelle
Dal regista di «La La Land» (2016) uno dei film più attesi dell’anno. Vagamente ispirato al celebre e fortunatissimo romanzo di Kenneth Anger «Hollywood Babilonia» (1959), «Babylon» è un’opera fiume di tre ore che mette in scena, a un secolo esatto di distanza, la Hollywood dissoluta, corrotta e ingorda degli anni Venti. E per farlo racconta le vicende incrociate di tre personaggi (immaginari) che, ognuno a modo suo, vivono l’ascesa e la caduta della propria vita e della propria carriera nel momento del passaggio dal muto al sonoro e dalla crisi del ‘29 alla Grande depressione.
I baccanali, l’alcol, il sesso, la droga, gli eccessi di ogni tipo – il film si apre con un party orgiastico in una villa sulle colline californiane dove viene portato perfino un elefante – scandiscono il ritmo mentre i destini dei protagonisti finiscono per confliggere con un mondo troppo sfrenato e folle per essere vero (e per durare). Tramontati i roaring twenties infatti tutto lentamente si sgretola e lascia spazio solo ai rimpianti e alla nostalgia. Ed è proprio un montaggio di immagini nostalgico, ruffiano e un po’ grossolano a chiudere il film, un rutilare di spezzoni cinematografici messo lì per ribadire quanto il cinema sia (nonostante tutto?) un’arte stupefacente e capace di penetrare le menti e i cuori degli spettatori oggi come allora.
Non si capisce bene quale sia l’intento di Chazelle, se quello di scandalizzare il pubblico più puritano, di rivelare la vera faccia di un sistema e di un momento storico che nell’immaginario collettivo sono sempre stati mitizzati, oppure osservare la storia del cinema delle origini – fatta di sessismo, razzismo, ipocrisia e corruzione – con occhi nuovi, magari assecondando la nuova moralità contemporanea e operando una specie di crudele revisionismo in cui si salvano i fini ma si condannano i mezzi… Fatto sta che il risultato è un film talmente grande, sfaccettato e confuso da aver spaccato in due critica e pubblico come non succedeva da tempo. Dimostrando (forse inconsapevolmente) che il cinema, nonostante tutto, è più vivo che mai.
(Capitol/Uci Orio e Curno/Arcadia Stezzano/Anteo Treviglio/Starplex Romano di Lombardia)
«High Maintenance. Vita e opere di Dani Karavan» di Barak Heymann
Dani Karavan è stato uno dei più grandi scultori contemporanei. Specializzato in opere di enorme grandezza e impatto visivo come piazze, viali, memoriali, installazioni paesaggistiche, torri ecc, tutte realizzate con la caratteristica di essere site specific ovvero pensate e realizzate esclusivamente per un luogo e solo per quello. Israeliano di Tel Aviv, con un profondo attaccamento alla memoria della Shoah, ma allo stesso tempo feroce oppositore del governo di destra del proprio paese e convinto difensore della causa palestinese, Karavan è un personaggio da romanzo: istintivo, scorbutico, narcisista, polemico e brontolone eppure incredibilmente affascinante e magnetico, oltre che ricco di spirito e con una verve creativa fuori dal comune.
Il documentario che Barak Heymann gli dedica non racconta qualcosa di particolare o sorprendente, si limita a pedinare – per diversi mesi – Karavan mentre torna nei luoghi che ospitano le sue opere (da Tel-Aviv alla Francia, dalla Germania al deserto del Negev) constatandone lo stato di conservazione e entra esce dagli ospedali per tenere sotto controllo la propria salute malferma. Il regista riesce in questo modo a costruire un ritratto sincero e svuotato di ogni retorica o intento agiografico di un artista geniale, animato da uno temperamento combattivo e intransigente ma allo stesso tempo con una precisa missione politica nella testa.
In occasione del Giorno della Memoria un film come questo rappresenta un’opportunità unica per ragionare sul senso del ricordo e della testimonianza. E su come l’arte abbia la possibilità – e la responsabilità – di mettersi al servizio della memoria. Anche quando, come il film racconta, intervengono dubbi di natura etica e di opportunità politica (Karavan non è sicuro di poter realizzare un monumento ai giusti di Polonia nel clima politico e sociale della Polonia di oggi). Dani Karavan è morto nel 2021, poco prima che il film – che gli è dedicato – venisse distribuito. E anche solo per questo «High Maintenance» merita una visione.
(Conca Verde, solo martedì 31 gennaio)
«Gli Spiriti dell’isola» di Martin McDonagh
Ecco il film destinato a diventare uno dei più amati del 2023, che farà sicuramente incetta di premi ai prossimi Oscar (intanto ha già vinto tre Golden Globe fra cui quello come miglior commedia) e di cui si parlerà a lungo. E in effetti quello di McDonagh è ciò che si può definire un film perfetto. Soprattutto dal punto di vista della scrittura. Come il precedente «Tre manifesti a Ebbing, Missouri» (2017), anche qui tutto parte da una sceneggiatura di ferro, con un racconto che scorre via con un ritmo calibratissimo, dialoghi brillanti e pieni di sagacia e attori perfettamente in parte.
La storia è quella di due vecchi amici, Pádraic (Colin Farrell) e Colm (Brendan Gleeson), che vivono la loro placida esistenza a Inisherin, una piccola isola (immaginaria) dell’Irlanda, mentre in lontananza esplodono gli ultimi fuochi della guerra civile – siamo nel 1923. Quando Colm decide improvvisamente di smettere di parlare a Pádraic mettendo fine alla loro amicizia – perché lo giudica troppo noioso, per nulla interessante e non ha più intenzione di sprecare il suo tempo con lui – la vita del piccolo borgo rurale nel quale vivono viene sconvolta. Pádraic non si arrende alla decisione di Colm e cerca di riconquistare in ogni modo la sua amicizia, ma ogni sua azione scatena delle reazioni imprevedibili, violente e irrimediabili.
Dietro una trama così esile McDonagh costruisce un film sorprendentemente ricco di sfumature e con molteplici livelli di complessità. La discordia insanabile fra i due protagonisti racchiude sottoforma di metafora i più profondi interrogativi sull’esistenza e la natura umana, mentre la cornice spoglia in cui il film è ambientato rimanda una sorta di elementarità degli istinti e dei sentimenti. Ma c’è anche molto altro, con momenti di pura commedia e altri di intollerabile durezza. E poi ci sono fantasmi (le banshees della tradizione cui allude il titolo originale), animali domestici che sembrano più umani delle persone e quell’atmosfera cupa e nebbiosa che rende l’Irlanda il posto magico che è. Da vedere assolutamente in versione originale, perché la cadenza, l’accento e i nomi strambi dei personaggi regalano ai dialoghi una musicalità unica che si perde completamente nel doppiaggio.
(dal 2 febbraio)
«Decision to Leave» di Park Chan-Wook
Park Chan-Wook è un regista sorprendente, mai uguale a se stesso. Quest’ultimo «Decision to Leave» – diversissimo dal precedente «Mademoiselle» (2016) e da quasi tutta la sua filmografia da «Old Boy» (2003) in giù – è una detection story piena di risvolti imprevedibili e sempre sospesa in un’atmosfera allusiva e ambigua, della quale è difficile distinguere i contorni.
La storia gira intorno al detective Hae-joon, incaricato di fare luce sul presunto suicidio di un uomo dietro al quale potrebbe invece nascondersi un omicidio. Le indagini portano Hae-joon a ipotizzare un coinvolgimento della moglie del defunto, Seo-rae, un’attraente donna cinese che non parla troppo bene il coreano e con i suoi atteggiamenti apparentemente fragili ma fortemente seduttivi nei confronti del detective – sposato ma non indifferente al fascino della ragazza – intorbidisce il clima, riuscendo ad allontanare i sospetti da sé.
Park non dirige un poliziesco in senso stretto e appare evidente come non sia la detection a interessare al regista, quanto il clima fosco nel quale si muove il racconto. Come in un noir classico infatti tutto è giocato sul rapporto carico di ambiguità fra l’investigatore e la femme fatale, vero motore della storia. Seo-rae ha tutte le caratteristiche della donna fatale tipica della letteratura gialla, ma unisce a tutto questo una enigmaticità e un’energia da thriller hitchcockiano. «Decision to Leave» è un film misterioso, non semplice da discernere eppure estremamente magnetico, dove tutto gira intorno a sentimenti e passioni raffreddate, nascoste o inespresse alle quali però diventa impossibile sottrarsi. Fino alle più nefaste conseguenze.
(dal 2 febbraio)
- «Babylon», «Gli spiriti dell’isola», la rivelazione «Aftersun», il nuovo Park Chan-Wook e il cinema della memoria di Barak Heymann
- «Aftersun» di Charlotte Wells
- «Babylon» di Damian Chazelle
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- «Decision to Leave» di Park Chan-Wook