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«Anatomia», «Killers of the Flower Moon», «The Killer» e «Hit Man». Quattro film da recuperare in queste sere d’estate

Articolo. Non uno, ma quattro buoni motivi per recuperare i film della stagione scorsa che vi siete persi. Fra le arene estive e le piattaforme streaming il calendario è ricco di titoli da non lasciarsi scappare

Lettura 5 min.

L’estate è sicuramente uno dei momenti buoni per dedicarsi al cinema. Che sia nelle arene estive o in sala, sedersi su una poltroncina è un’ottima opportunità per godere di un po’ di frescura, naturale o artificiale che sia. Ma anche restare a casa guardarsi un film è il modo perfetto per passare una serata aspettando (o ricordando) le vacanze. E siccome in estate le uscite di film importanti o attesi sono poche o nulle – il 2023 con il fenomeno «Barbenheimer» è stato un caso decisamente unico – la cosa migliore da fare è recuperare quello che si è perso durante l’anno (cosa che i cinema all’aperto permettono di fare da sempre, inserendo in calendario i film più popolari della stagione appena conclusa). E allora anche noi, appena prima della pausa agostana, vogliamo dare qualche consiglio di buon cinema. Sono tutti film che le arene estive della città o le piattaforme di streaming più popolari hanno in programmazione nelle prossime settimane e che se non avete ancora visto non dovete assolutamente perdere.

Abbiamo già parlato di «Un colpo di fortuna – Coup de Chance», «La zona di interesse», «Povere creature» (in programmazione all’Arena Santa Lucia), «The Holdovers - Lezioni di vita», «Perfect Days», «Kinds of Kindness» (nel calendario di «Esterno notte»), «C’è ancora domani», «Ferrari» e «Adagio» (disponibili su Prime e Netflix). Tra i tanti poi sulle principali piattaforme si possono ancora trovare titoli come «Io capitano», «The Palace», «Saltburn», «L’ultima notte di Amore», «Maestro», «La società della neve» e «Estranei». Il focus però lo vogliamo stringere su quelli che seguono.

«Anatomia» di una caduta di Justine Triet

Lunedì 12 agosto, «Esterno Notte»

Palma d’Oro a Cannes, Oscar alla miglior sceneggiatura, Golden Globe per il miglior film straniero. Questi sono solo alcuni dei premi (i più prestigiosi) che «Anatomia di una caduta» ha collezionato in giro per il mondo, diventando – un po’ a sorpresa – uno dei film più apprezzati della scorsa stagione cinematografica. Una scrittrice, uno chalet incastonato nelle Alpi francesi, un figlio quasi cieco a causa di un misterioso incidente e un marito, musicista di successo ma insoddisfatto della vita di coppia, che improvvisamente cade da una finestra e muore. Apparentemente un suicidio, ma le indagini presto prendono una piega diversa e la donna viene accusata di omicidio, difesa da un amico avvocato che forse la ama...

Quello di Justine Triet è principalmente un film di genere – fra il dramma familiare e il legal thriller – che lavora sull’ambiguità, lasciando in sospeso giudizi e attribuzioni di colpa, ma mettendo a nudo conflitti e contraddizioni del rapporto di coppia e, in senso più allargato, della relazione uomo-donna, soprattutto nella misura in cui la parte femminile diviene oggetto della morale e del giudizio pubblico. La caduta evocata dal titolo dunque non è solo quella concreta su cui si fissa l’inchiesta legale, ma anche quella metaforica che ha a che fare con la messa sotto accusa (e conseguentemente in crisi) dei ruoli di una donna di successo, madre, moglie della protagonista (una strepitosa Sandra Hüller), nel momento in cui attraversano il confine fra sfera privata e dominio pubblico. E che interrogano nel profondo anche le nostre convinzioni, coscienze e ideologie. Senza sconti.

«Killers of the Flower Moon» di Martin Scorsese

(Prime)

«Killers of the Flower Moon» non sembra sulle prime un film di Martin Scorsese e del resto tre ore e venti di film tutte ambientate nella riserva indiana della tribù Osage, nord est dell’Oklahoma, all’inizio degli anni ‘20 del ‘900, non paiono esattamente in linea con il più classico cinema “newyorkese” del regista originario del Queens. Tuttavia se si osserva bene, se ci si lascia coinvolgere dal ritmo della storia – che un regista strepitoso come Scorsese è capace di raccontare come nessun altro – e se si “entra” completamente nel film, diventa chiaro come tutto sia tipicamente scorsesiano. A cominciare dall’impianto narrativo, che somiglia a una gangster story, dove dei personaggi entrano in un mondo al quale non appartengono intenzionati a dominarlo (come in «Toro scatenato», «Il colore dei soldi», «L’età dell’innocenza», «Casinò»...). Si tratta di Ernest Burkhart (Leonardo DiCaprio) e William King Hale (Robert De Niro) nelle sorti di faccendieri e speculatori che favoriscono le unioni fra bianchi e nativi con il fine di prendersi la terra di questi ultimi ricorrendo a ogni espediente, compreso l’omicidio.

Il matrimonio di Ernest con Mollie (Lily Gladstone) è finalizzato proprio a questo, ma le cose non prendono la piega prevista e si complicano in fretta. L’ottantenne Scorsese continua a ragionare sull’origine comunitaria e sanguinaria dell’America – in modo molto simile, ma senz’altro più sottile, a come aveva fatto in «Gangs of New York» – filmando per la prima volta l’Ovest, che però priva intenzionalmente di qualsivoglia afflato poetico o mitologico, e descrivendo il mondo in cui germina l’ideologia capitalista del proprio Paese come un luogo dominato dal denaro e dalla violenza più ottusa. Il tutto senza dar vita a scene madri o sequenze d’effetto, ma con un cinema fatto di sguardi, silenzi, primi piani e paesaggi mozzafiato. E riuscendo comunque a emozionare e tenere incollati allo schermo.

«The Killer» di David Fincher

(Netflix)

David Fincher, uno dei più grandi autori del cinema americano in attività, conosce molto bene i killer, cinematograficamente parlando, s’intende. Se non altro per aver raccontato due variazioni sul tema dell’assassino seriale in due altrettanto straordinari film come «Seven» e «Zodiac». Per questo forse Netflix ha pensato a lui come regista per l’adattamento cinematografico della celebre miniserie a fumetti francese «Il killer» (in originale «Le Tueur») firmata da Matz, che racconta le vicissitudini di un sicario senza nome (che nel film ha il volto imperscrutabile di Michael Fassbender) freddo, calcolatore e iper metodico durante una serie di missioni in giro per il mondo.

Un sicario però è molto diverso da un serial killer e allora anche il modo in cui vengono mostrate la sua psicologia e il suo “stile” cambiano completamente. Fincher per farlo si affida a un registro decisamente più leggero del solito e costruisce un film che si muove su schematismi, cliché e ripetizioni tipiche della serialità (fumettistica) che sta all’origine dell’opera di riferimento. Visto in questo modo «The Killer» potrebbe sembrare un divertissement totalmente fine a se stesso, così attaccato a una narrazione di stampo letterario che descrive esplicitamente non solo le azioni ma anche i pensieri, le emozioni e i ragionamenti del protagonista – tutti recitati in voice over – senza lasciare (quasi) nulla alle immagini. Eppure anche in un impianto così rigido e stringente il regista texano trova il modo di costruire grandi momenti di cinema e di venare di una certa inquietudine il racconto. Con un incedere profondamente “hitchockiano”: sia nella forma – vedasi lo straordinario incipit – sia nella narrazione tutta tesa, come nel cinema del maestro londinese, a mostrare il caos e l’imponderabile che si nascondono dietro all’apparente banalità del quotidiano.

«Hit Man» di Richard Linklater

Mercoledì 14 e giovedì 15 agosto, «Esterno Notte»

Da un sicario ad un altro. Anche «Hit Man» ha al centro – fin dal titolo – la figura del killer di professione, anche se quello di Linklater è un assassino estremamente diverso da quello di Fincher e la sua è tutta un’altra storia. Ovvero quella di Gary, professore universitario di filosofia e psicologia sulla trentina con una vita ordinaria, che però è anche consulente part-time per la polizia. In questa veste Gary si trasforma in Ron (e in tanti altri): finto sicario che si fa assoldare da chi vuole far fuori qualcuno (amanti, rivali in amore, soci in affari, genitori) ma non ha il coraggio di farlo da solo. Lo scopo è quello di incastrare i potenziali mandanti e arrestarli prima che mettano in atto i loro piani criminosi. Se al mattino quindi Gary insegna ai suoi studenti la costruzione sociale del Sé, di pomeriggio la prova sulla sua pelle.

Ovviamente, come nella tradizione della commedia, a un certo punto Ron, sicuro di sé, duro, affascinante e attraente, prende il sopravvento su Gary – che come gran parte dei professori universitari è un po’ sfigato, si veste male e passa inosservato – dando vita a una serie di fraintendimenti e scambi di persona che ingarbugliano la situazione. All’apparenza «Hit Man» è una innocua commedia degli equivoci, nemmeno troppo originale e dal finale scontato. In realtà Linklater la trasforma in un trattato sulla natura umana che – come le grandi commedie hollywoodiane dell’epoca classica di Lubitsch o Wilder, cui evidentemente si ispira – si interroga su questioni complesse (la responsabilità individuale, il libero arbitrio, la legge giuridica e morale, il rapporto fra pensiero e azione, fra bisogno e desiderio) e mette a fuoco contraddizioni e debolezze che dominano tanto le relazioni sociali quanto il complicato rapporto con se stessi.

Non è un caso che il film si apra con un quesito, recitato da Gary ai suoi studenti in aula, che oltre a un monito è anche una preziosa chiave di lettura: «Quanti di voi pensano di conoscersi? Quanti conoscono il proprio Sé? E cosa direste se scopriste che il vostro Sé non è invece per nulla vostro ma è frutto di una costruzione, un’illusione, una fiction, un ruolo che avete interpretato per tutta la vita?». Domande a cui tutti, forse, dovremmo provare a rispondere.

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