Si racconta che Jurij Gagarin quel 12 aprile del 1961, quando si trovò per primo da solo di fronte all’immensità dello spazio profondo esclamò: “non vedo nessun Dio quassù”. In realtà non c’è alcuna registrazione che confermi che l’abbia detto davvero. E probabilmente si tratta di un’attribuzione apocrifa della propaganda sovietica. Vera o falsa che sia quella frase racchiude però un’infinita serie di dispute, credenze, narrazioni e ipotesi fantascientifiche intorno al concetto di spazio – e non per forza di natura spirituale o religiosa. E nella sua icastica semplicità ingloba anche numerose opere letterarie, cinematografiche, teatrali o d’arte figurativa che nel corso del Novecento hanno riflettuto su temi tanto universali. “Ad Astra” di James Gray è senza dubbio una di queste.
Il film è ambientato in un futuro prossimo in cui i viaggi spaziali sono diventati di massa, in cui ci sono dei mega telescopi che si elevano dalla terra su fino alla stratosfera e sulla Luna si arriva con i voli di linea. In questo scenario la Nasa si occupa di missioni ai confini del sistema solare, fino ai pianeti esterni, per esplorare l’ignoto che sta oltre il cosiddetto spazio interstellare.
Il maggiore Roy McBride (Brad Pitt) è un astronauta dell’agenzia spaziale americana che guida una squadra impegnata nella ricerca di forme di vita aliena. Quando una serie di catastrofiche scariche elettriche inizia a causare ingenti sciagure su tutta la Terra, gli scienziati identificano la causa in alcune esplosioni radioattive localizzate su Nettuno. L’intelligence sospetta che all’origine di tutto possa esserci una missione spaziale: il Progetto Lima, partito per il lontano pianeta più di vent’anni prima e creduto disperso, ma probabilmente ancora in attività. A capo della spedizione c’era Clifford McBride (Tommy Lee Jones), il padre di Roy, astronauta di grande fama di cui da più di sedici anni non si hanno notizie. La Nasa crede che Clifford abbia disertato e sia in qualche modo responsabile delle esplosioni elettriche e incarica lo stesso Roy di mettersi in viaggio per Marte e da lì entrare in contatto con il padre con il compito di convincerlo ad arrendersi e rientrare.
Ai più attenti la trama ricorderà quella di uno dei più grandi capolavori della storia del cinema: “Apocalypse Now”. E in effetti le similitudini fra i due film sono molte e vanno identificate con il fatto che entrambi sono ispirati a “Cuore di tenebra” di Joseph Conrad. Se il war movie di Francis Ford Coppola era un vero adattamento del romanzo di Conrad nello scenario della guerra del Vietnam, per quanto riguarda Gray l’impronta conradiana sta soprattutto nella costruzione di un immaginario con molte tematiche che attraversano tutta l’opera dello scrittore britannico, autentico pallino di Gray, esplorato, osservato e riletto attraverso il proprio cinema.
In modo simile a quanto posto al centro di “Civiltà perduta” (2016) – il precedente film di Gray che raccontava l’insopprimibile ossessione dell’esploratore vittoriano Percy Fawcett per l’Amazzonia – anche in “Ad Astra” i temi dell’esplorazione, della sete di conoscenza e della scoperta sono posti come bisogni, in una sorta di necessità atavica che va ben oltre se stessa.
Come per quasi tutti i protagonisti conradiani – non è un caso a questo proposito che la Luna di Gray sia abitata dai pirati – e allo stesso modo per il capitano Achab di Melville il rapporto con la natura, su cui si misurano i limiti dell’umano, si costruisce qui come una prova, una battaglia, una sfida che ossessiona.
Così è per Clifford, partito per cercare di soddisfare il proprio bisogno, umanissimo, di avere risposte. Per provare a scorgere una luce nel buio dello spazio siderale e una voce che risuonasse nel silenzio. Ma è così anche per Roy, il cui viaggio – molto più della destinazione – è la vera prova da affrontare, l’elemento in cui cercare il significato delle proprie azioni. Perché alla fine del viaggio, attorno agli anelli di Nettuno, là dove non arrivano i raggi del sole e tutto è buio e freddo, di risposte non ce ne sono. Non c’è niente da vedere e da ascoltare, tranne un vuoto del quale è impossibile capacitarsi. La sconfitta di Clifford, che non riesce ad accettare la vacuità della propria impresa – di esploratore e di uomo – è nello stesso tempo la soluzione dei tormenti di Roy, finalmente in grado di guardare la natura per quello che è.
Come si diceva “Ad Astra” non è un film contro la spiritualitào a favore di un laicismo intransigente, piuttosto è un’opera profondamente umanista. Che invita a fare i conti con la finitudine dell’uomo e ad accettare la sua vulnerabilità. Ma anche ad affrontare le sfide terrene – quelle da cui Roy è scappato per tutta la vita – con equilibrio. Perché forse quel “Per aspera ad astra”, motto latino cui il titolo allude (letteralmente: “Attraverso le avversità, verso le stelle”) significa che le cattive stelle esistono e sono le stesse per tutti e che provare a raddrizzarle è un compito difficile da apprendere. Un percorso lungo come tutta una vita.
Concepito e scritto in un momento in cui l’esplorazione dello spazio è tornata d’attualità “Ad Astra” è però anche un film che omaggia e guarda con affetto il grande cinema classico di fantascienza, soprattutto quello di Kubrick, da cui riprende il tema dell’Odissea spaziale, ma anche del Ridley Scott di “Blade Runner”. Riuscendo a costruire a livello formale un universo visivo che rimanda all’immaginario più tipico dei mondi e dei viaggi spaziali così come rappresentati dal cinema.
Persino la scelta di un Brad Pitt – anche produttore – diretto con meno maestria di quella mostrata da Tarantino (e che quest’anno rischia di andare agli Oscar addirittura con due film), appare azzeccata. Perché gli assegna il ruolo di un eroe attonito, umanissimo e continuamente sbalordito dalla vastità dell’inesplicabile vuoto in cui si trova immerso.
E non meno valore in questo senso assume la sfumatura forse più laterale, eppure decisiva, del film: quella del rapporto fra padre e figlio. Roy deve fare i conti infatti con una figura paterna perduta quando aveva solo sedici anni, con un eroe del quale ha ripercorso le orme e che l’ha ossessionato, con la sua ingombrante assenza, per tutta la vita. Ora che se lo ritrova di fronte, come un fantasma che torna dall’aldilà può finalmente fare i conti con la sua fallibilità e riesce a superare il timore che provava verso di lui.
Ma anche questo confronto freudiano non ha altro compito che ribadire come l’uomo – padre e figlio possono essere visti come metafora delle età della vita – non faccia altro che interrogarsi per tutta l’esistenza sulle medesime questioni. E che a prescindere dal fatto che le sue risposte le trovi o meno, non smette mai di avere paura dell’ignoto. In fondo, come diceva Arthur C. Clarke, autore del romanzo “2001: Odissea nello spazio”: “Potremmo essere soli nell’universo o potremmo non esserlo: ma entrambe le prospettive sono ugualmente terrificanti”.