Ognuno di noi ha il proprio film natalizio del cuore. Quello che ci riporta all’infanzia, quello che non rivediamo da anni ma che potremmo recitare a memoria, oppure quello che ci segniamo in calendario peggio che l’appuntamento dal dentista. Abbiamo chiesto a quattro nostre autrici di svelarci i loro film di Natale preferiti. Ecco il risultato.
«Una poltrona per due» e «Mamma ho perso l’aereo»
Il mese di gennaio 1984 si ricorda come un mese di grandi uscite: oltre alla nascita della sottoscritta, arrivava infatti nei cinema italiani uno dei film di Natale per eccellenza: «Una poltrona per due». Dal 1997 viene trasmesso puntualmente su Italia1, generalmente la sera della Vigilia, e ogni autunno su Internet si scatena il conto alla rovescia per la sua messa in onda (qui trovate un profilo Facebook dedicato). Qualche anno più tardi, nel 1990, usciva un altro film destinato a diventare un grande classico: «Mamma ho perso l’aereo». Ma qual è la ricetta del successo di queste due pellicole?
Dobbiamo dirlo: innanzitutto la strategia commerciale delle reti Mediaset, che mettendoli in onda ogni anno li ha automaticamente consacrati nell’immaginario a simboli stessi delle festività. Un punto fermo che di anno in anno fidelizzi il pubblico, a cui «piace sentirsi raccontare sempre la stessa storia», come ha dichiarato la stessa direttrice di Italia 1 Laura Casarotto in un’intervista. Secondo: l’eterno e immutabile spirito degli anni 80-90, e cioè il riscatto sociale e la riuscita delle imprese grazie all’ingegno e alla furbizia del singolo. Non è un caso infatti il successo in Italia di due pellicole del genere, in un paese di “furbetti” che si sono fatti strada sgomitando, anche senza titoli ma con tanto impegno e buona volontà.
«Una poltrona per due» è un moderno adattamento de «Il principe e il povero» di Mark Twain, sotto forma di una divertente commedia politicamente scorretta. Un senzatetto imbroglione (Eddie Murphy) si trova a vivere la vita di un giovane rampollo di Wall Street (Dan Aykroyd) a causa di una scommessa di due spregiudicati uomini d’affari. Le due vittime del raggiro uniscono le forze per mettere in atto una vendetta che colpisca i due avidi squali con la loro stessa arma: il mercato azionario su cui volevano speculare (per una spiegazione dettagliata del finale, che sicuramente da piccoli non abbiamo ben capito, leggete qui).
«Mamma ho perso l’aereo» sposta invece il focus dal mondo degli adulti a quello dei bambini e ci racconta di un moderno Davide contro Golia. Un ragazzino (Macaulay Culkin) viene dimenticato per errore a casa mentre i parenti partono per Parigi. Mentre si gode la liberta, capta le intenzioni di due maldestri ladri d’appartamento e mette a punto una serie di ingegnose trappole casalinghe. Nel frattempo, la madre affronta un rocambolesco viaggio per tornare da lui (ammettetelo, oggi vi immedesimate più con la madre disperata e distratta che col piccolo Kevin).
Sono insomma due film che, da punti di vista molto diversi, trattano tuttavia temi universali: l’analisi della natura umana e l’ingiustizia sociale da un lato, l’astuzia dei più piccoli e il bisogno di sentirsi accettati all’interno della famiglia nell’altro. Temi che non ci stancheremo mai di sentirci raccontare, soprattutto la notte di Natale.
(Clara Bassani / «Una poltrona per due» in onda sabato 24 alle 21.30 su Italia 1, «Mamma ho perso l’aereo» su Disney+ e venerdì 23 alle 21.30 su Italia 1)
«Parenti Serpenti»
Sono un’adulta che odia i cartoni animati e i film per bambini. Che liberazione: l’ho detto. Quando – nelle classiche tavolate di amici – si cominciano a citare con crescente nostalgia i cartoni della nostra infanzia vorrei scappare. Sono anche una madre che non vede l’ora di NON vedere tutti i classici Disney con i figli. Insomma, una pessima persona. Per questo il mio film di Natale preferito – anzi, l’unico che concepisco – è «Parenti Serpenti», capolavoro di Mario Monicelli del 1992.
Un capolavoro vero, non nel senso trash che si dà oggi al termine: una commedia nera che ha fotografato alla perfezione tic e manie della famiglia italiana alla fine dello scorso millennio, sotto le feste. Un Natale tipico, che più tipico non si può. Festoso, certo, ma anche pacchiano e con uno spesso fondo di malinconia e di tensione. Le nuore che mal si sopportano, i regali brutti, la tombolata, i bambini che non sono quelli delle pubblicità (oggi si griderebbe al body shaming per la ragazzina grassa, anzi «con un culo che fa provincia» come dice sua madre nel film, una favolosa Cinzia Leone), i parenti riuniti nella vecchia casa di provincia dei nonni, ognuno con le proprie meschinità e i propri peccatucci. Il set è un universo povero e kitsch fatto di tv sempre accesa, vecchi serramenti, lettucci arrangiati, soprammobili orrendi, corridoi male illuminati, sale da pranzo dove stare ammassati: niente di “instagrammabile”, tutto il contrario delle case da vetrina che vediamo nelle fiction italiane di oggi.
Direte: «che tristezza». Sì, «Parenti Serpenti» è un film triste, ma così liberatorio. Così divertente. Scritto e interpretato così bene. Per chi si avvicina ai quaranta è anche una sorta di documentario della nostra infanzia (se avete avuto infanzie idilliache, problema vostro). Fa anche molto ridere, con dialoghi brillantissimi e serrati, attori stratosferici (Alessandro Haber!), personaggi cesellati alla perfezione. Ci sono battute del film che uso nella vita di tutti i giorni, senza che nessuno se ne accorga: «Hai esaudito un mio desiderio» (quando qualcuno mi fa un regalo orribile), «un genio non è» (parlando di qualcuno davvero stupido), «ne compro uno, ma che sia buono» (quando devo “giustificare” la spesa di un maglioncino di cachemire).
«Parenti Serpenti» è una scure che si abbatte sul conformismo di cui siamo vittime, con la cattiveria di Monicelli. Prende e ribalta i più sacri valori italiani: la tavola imbandita (con il fantastico dettaglio della fuga del capitone), la famiglia, i nonni (poveri nonni!), persino il Natale. Il finale, che non rivelo, è agghiacciante. Per questo, quando qualcuno cita «il Grinch» o «Scrooge» come antidoti alla melensaggine natalizia, mi viene da ridere. Monicelli vi ci vuole, datemi retta.
(Marina Marzulli / su YouTube)
«Topolino e la magia del Natale»
Una videocassetta nera, la copertina andata persa ormai da tempi immemori. Ho dovuto cercare un po’ su Google per ritrovare il titolo del film che per anni ha accompagnato le mie feste natalizie. «Topolino e la magia del Natale», film d’animazione del 1999 prodotto dalla Walt Disney Television Animation, si compone di tre episodi indipendenti. Se della terza storia ricordo poco (ci sono due romanticissimi Topolino e Minnie alla ricerca del regalo perfetto) e della seconda decisamente nulla, potrei recitare la prima a memoria – accompagnata dalla voce cantilenante di mia sorella.
L’episodio «Un Natale al giorno» vede protagonisti Qui, Quo e Qua, i tre nipoti di Paperino, che si svegliano la mattina di Natale e, senza aspettare l’arrivo dei parenti né leggere il biglietto d’auguri, scartano in fretta i loro pacchetti. Dopo un pomeriggio trascorso giocando tutto il tempo (anche quando la famiglia si raduna per i canti natalizi), i ragazzi esprimono un desiderio: che sia Natale tutti i giorni. Ecco allora avverarsi il sogno e ripetersi la stessa scena, una volta, due, tre. I doni sotto l’albero, l’arrivo di zia Gertie (una macchiettistica papera paffuta dispensatrice di baci), le corse con la slitta.
Come prevedibile, la felicità dei primi giorni si trasforma presto in noia: Qui, Quo e Qua si accorgono che ogni giorno sarà esattamente uguale al primo. Per “variare lo schema”, danno il via a una serie di dispetti, come catturare uno sventurato «tacchino delle nevi» e sostituirlo al tacchino farcito sul vassoio della cena. Il ciclo temporale si interrompe (finalmente) solo quando i protagonisti si decidono a leggere il biglietto che il “primo” 25 dicembre non avevano nemmeno degnato di uno sguardo, e capiscono che il Natale non è fatto solo di regali, ma della gioia di stare in famiglia.
Non so dire, ora come ora, perché mi piacesse «Topolino e la magia del Natale». Di certo non per la trama innovativa, né per i suoi personaggi (anche se Qui, Quo e Qua avevano certi ciuffi ribelli anni ’90…). Eppure, quella magia del titolo riusciva a passare attraverso lo schermo. Un po’, da bambine, io e mia sorella abbiamo desiderato spesso che fosse 25 dicembre tutti i giorni. Un po’, quella zia Gertie che sbaciucchiava i nipotini ci ricordava la nostra nonna paterna, che non si perdeva d’animo di fronte alle nostre smorfie. O forse, alla retorica dei buoni sentimenti cedevamo con piacere.
Di certo, quando il nostro videoregistratore ha smesso di funzionare, non abbiamo mai pensato di convertire quella VHS consumata in DVD, per cui mi rendo conto solo ora dell’assurdità di certe scene. Sì, sto parlando di come dei paperi potessero mangiare un tacchino (un loro simile!) per cena. In fondo, da bambini è tutto un po’ più magico.
(Marialuisa Miraglia / su Disney+)
«Il piccolo Lord»
Viviamo nell’era che ha messo definitivamente al bando i buoni sentimenti. Non sono cool. Punto e basta. E Natale è il momento topico per tutti coloro che vorrebbero demolire i sentimentalismi. A Natale, la tolleranza diventa palesemente finta, i sorrisi sono evidentemente forzati, l’emotività diventa patetica. Poi, però, siamo ancora in molti a spulciare la programmazione natalizia in cerca di quel mitico film che una volta ci riuniva davanti alla tv con tutta la famiglia: «Il piccolo Lord» (Jack Gold, 1980), con i suoi due iconici protagonisti Alec Guinness e l’“aristrocratico” Ricky Schroder. Una bella iniezione natalizia di sentimentalismo cui aneliamo, ma rigorosamente di nascosto. Eppure che c’è di male a ricordarci che il candore dell’infanzia può cambiare il mondo, che il regalo più grande che tutti vorremmo ricevere è una dose di amore gratuito e disinteressato, che la famiglia è un valore anche quando è allargata, che il rapporto tra bambini e anziani può far solo che bene ad entrambi?
Io la ricordo bene la dinamica che scatena «Il piccolo Lord». Mamma, papà, nonna e il ruvido zio Gino: tutti davanti alla tv con un sospiro, come se si preparassero a una tortura inevitabile, soltanto per fare un favore a me. Ma poi il film cominciava e qualcosa sfuggiva al controllo emotivo: «Nonno che cos’è inferiore?»; «Parassiti, come Higgins: preferiscono vivere di carità invece che di onesto lavoro». Occhieggiavo verso i parenti e immancabilmente sorprendevo le teste di tutti a scuotersi in segno di sdegnata disapprovazione. Il climax culminava al tanto vituperato lieto fine con ricchi e poveri lietamente insieme attorno alla tavola imbandita del castello di Dorincourt. Ed è qui che scattava la mia infantile perfidia.
Quando gli occhi di tutti erano ormai implacabilmente lucidi e lo sforzo disumano che facevano per mantenere una fisiognomica impassibile diventava la cosa più divertente che avessi mai visto, puntavo il dito proprio verso di lui, Zio Gino, il brembano tutto d’un pezzo, poche parole e molti grugniti: «Ma zio, ma stai piangendo?». Grugnito lieve. «Zio, ma guarda che si vede che stai piangendo». Grugnito rabbioso. «Guardateee, lo zio sta piangendoooo». «Adess basta o te ‘n piante ona che te riulte» («Adesso basta o ti do una sberla che ti ribalta»). E così mi ricordavo quanto in fondo era tenero lo zio. Ora zio Gino non c’è più, ma continuo a guardare insieme a lui «Il piccolo Lord», in cerca di una trasfusione di speranza nel fatto che tutto potrà anche cambiare sempre più velocemente, ma ci sono cose che non cambieranno mai, proprio come il caschetto biondo platino del piccolo Cedric, perfetto per ogni stagione e per ogni contesto sociale, dalle strade malfamate di Brooklyn alla corte di Dorincourt, dall’infanzia in cui tutto è possibile all’«adultità» disillusa dalle prove dell’esistenza.
(Barbara Mazzoleni / su Prime Video, Sky e NowTV)