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«Ci chiamavano i terroni di Trieste», storia di un’esule fiumana a Bergamo

Intervista. Laila Nyaguy Serughetti partì da bambina dalla sua Fiume nel 1957, su un treno di sola andata per l’Italia. Sfollata alla Celadina, in città, ci ha raccontato la sua storia e quella della sua famiglia.

Lettura 4 min.
Laila Nyaguy Serughetti con il suo album di famiglia

Quando Laila Nyaguy apre la porta della sua casa di Albano Sant’Alessandro si resta travolti dalla storia del Novecento. Dalle carte e dagli album di foto di una normalissima famiglia bergamasca si risale a complicate genealogie, perfettamente normali nel vecchio impero asburgico.

Ciò che ora suona esotico alle nostre orecchie - a cominciare dal cognome, Nyaguy, di origine ungherese - era portato con naturalezza da nonno Giulio, che si sentiva fiumano e italiano.

L’Impero

Non si può parlare di esodo giuliano-dalmata senza parlare di quell’impero che per secoli aveva reso possibile la coesistenza di popoli diversi per lingua, fede, storia, origini. Me ne rendo conto quando Laila Nyaguy - maestra in pensione, classe 1949 – mi racconta la storia del bisnonno, di nome Giulio, come il figlio e come tutti i primogeniti della famiglia, dettaglio che complica ancor di più ogni ricostruzione. Arredatore e decoratore dei teatri sotto l’Impero asburgico, originario di Budapest, conosceva sette lingue ed era un suddito fedele dell’imperatore.

Forse anche per un conflitto con la figura paterna, il figlio la pensava diversamente: «Credo si sia sentito intellettualmente libero di scegliersi la sua nazionalità, conosceva un po’ il latino, amava la matematica e la storia, e si rivedeva per ragioni storiche nell’Italia. Era convinto che Fiume dovesse essere una città libera, voleva l’autonomia. Era piuttosto progressista, ma non si è mai occupato direttamente di politica», racconta Laila. Con la moglie Ersi, nata vicino a Buda e arrivata a Fiume per andare a servizio da una famiglia, parlava ungherese.

I tedeschi

Mario, figlio di Giulio e padre della nostra Laila, amava i motori e si fece assumere a 17 anni come autista a Fiume per conto dei tedeschi, verso la fine della guerra. «Fingeva di non sapere bene né il tedesco né l’italiano, così origliava i loro discorsi e, facendo la spia, riuscì a salvare alcuni partigiani. Non era molto politicizzato, ma pensava che i partigiani avrebbero liberato Fiume dai tedeschi, che tutti odiavano. Dovette smettere perché la madre – nonna Ersi, Elisabetta in ungherese - venne a sapere cosa stava facendo e, preoccupatissima, lo fece licenziare con la scusa che non era ancora maggiorenne e aveva mentito sull’età». Mario conobbe poi la futura moglie Vera Lovnicki (il cognome era forse polacco, ma lei si considerava italiana) durante un ballo alla sala del Circolo, dove si ritrovavano i fiumani.

Dopo la guerra

Di Fiume Laila ricorda «Il corso, la chiesa dei Cappuccini, il mare, il porto, le navi che andavamo a vedere, l’entrata della città vecchia, il cimitero di Cosala dov’era sepolto mio fratellino Giulio, morto piccolo in un incidente. Mio papà che mi portava in spalla, le paste creme nei caffè, c’erano momenti molto sereni…». L’immagine di Tito era ovunque, negli uffici, nei negozi, sugli edifici: «Chiedevo a Mizi (Maria in croato) la mia nonna materna, analfabeta, la persona a cui ho voluto più bene al mondo, se Tito ci fosse sempre stato. Lei mi rispondeva che prima c’era stato Franz Iosip. Ho capito solo alle magistrali che parlava di Francesco Giuseppe II d’Asburgo!»

L’infanzia di Laila trascorre piuttosto serena: «Non ho mai sofferto la fame, non ho avuto paura. Molte cose i miei me le hanno sempre nascoste. Sentivo la parola “foibe” pronunciata dai grandi, ma sempre sottovoce e non mi hanno mai spiegato niente. Origliavo le storie di amici di famiglia scappati senza documenti, c’era il marito di un’amica di mia mamma che non si sapeva dove fosse finito: “Se i lo ga preso, xe finido in foiba o in mar”, dicevano. Gli esuli provenienti da Zara raccontavano di italiani legati e buttati in mare per essere annegati».

Il padre Mario, dopo la guerra, fece ripetutamente domanda per poter andare in Italia, che venne accettata solo nel 1957. Sarebbe potuto partire anche prima, lasciando però a Fiume - diventata Rijeka - moglie e figli. Vera, infatti, era considerata croata perché suo padre Matteo, durante il fascismo, malato e vicino alla morte, nonostante le suppliche dei parenti e del sacerdote che lo assisteva, rifiutò di apporre il segno di adesione alla richiesta di cittadinanza italiana per sé e la famiglia. Ripeteva: «Io non sarò mai fascista». Alla fine, anche Vera poté partire, ma solo venendo espulsa dalla Jugoslavia.

Libertà e lavoro, questo cercava la famiglia Nyaguy in Italia. «Per noi non voleva dire cambiare Paese, eravamo italiani che stavano entrando in Patria».

La partenza

Il dolore più grande, per Laila, fu dire addio a nonna Mizi, rimasta a Fiume. Il giorno della partenza, in treno, fu una scena straziante, da film. «Volevo tornare a casa, ma mio padre mi ammoniva: “No se torna ndrio!”. Fino agli 11 anni ho pianto di nostalgia, per Fiume e per mia nonna. Poi ho detto basta, perché mi impediva di vivere. Sono tornata a Fiume in visita, anni dopo, ma sapevo che era tutto diverso, sia la città che il rapporto con i parenti, quindi ero più distaccata».

Dopo il superamento del confine italo - jugoslavo la prima tappa fu Trieste, poi Udine, stipati in una caserma, poi 7 mesi e mezzo ad Aversa, in provincia di Caserta. «A Latina c’era una sorella di mia madre, ma fu un incontro fugace, non potevamo decidere dove stare. Mio papà venne convocato con altri capifamiglia, era autista e meccanico e sarebbe voluto andare a lavorare alla Fiat, oppure a Milano, ma le richieste erano tante. Noi eravamo gli ultimi arrivati e fummo destinati a Bergamo, nemmeno sapevamo dov’era».

Celadina

L’arrivo a Bergamo fu piuttosto traumatico: «Dalla stazione siamo arrivati col pullman alla Celadina all’inizio della primavera del 1958, siamo scesi con le valigie davanti al Portone del Diavolo, davanti a noi una lunga strada da fare a piedi. Mentre gli aversani erano stati affettuosi, i bergamaschi non tanto. Alcuni ci chiamavano “terroni di Trieste” e non riuscivamo a intenderci con le signore che parlavano in dialetto».

Poi, piano piano, le cose andarono meglio: «Mio padre diceva che eravamo noi a doverci adattare, non loro. Cominciai a frequentare la scuola, dove trovai una maestra bravissima, Silvia Cirami di Rovereto, che sapeva tante cose su di noi e sulla guerra e mi accolse subito. Ho fatto le magistrali e alla fine mi sono sposata con un bergamasco di Città Alta, Glauco Serughetti».

Il padre Mario, dopo tanti lavoretti come facchino alla stazione di Bergamo o come bagnino alle piscine, trovò lavoro alla Falk di Sesto San Giovanni. «Paradossalmente, a penalizzarlo nella ricerca di lavoro, non era tanto il fatto di essere un esule, ma di venire dalla Celadina, che all’epoca era vista come un quartiere malfamato di ladri e prostitute».

La memoria

Laila Nyaguy non è una nostalgica e non si interessa attivamente di politica, parla con affetto sia di Fiume, sia della Celadina. La cadenza musicale della sua voce rievoca ricordi e parentele sparse in tutto il globo. È una donna sorridente e serena, che cerca di coltivare la memoria, a partire da quella familiare. «I miei genitori non si soffermavano tanto sugli aspetti traumatici del passato, cercavano piuttosto di valorizzare i ricordi della loro giovinezza, per allontanare le memorie dolorose: un atteggiamento “difensivo” che ho riscontrato in altri esuli, costretti ad abbandonare le loro amate città». Laila ha anche pubblicato un libro: «Quel treno da Fiume» (La Versiliana, purtroppo fuori catalogo), custodisce le carte di famiglia e ritesse i fili di una storia da non dimenticare.

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