Il programma si muoverà tra percorsi espositivi, talk, performance, letture, proiezioni e il tutto viene presentato così: «Si tratta di un’ampia riflessione su cosa significhi, ammesso sia oggi possibile o lo sia mai stato, avere un corpo libero. La ritrovata prossimità dopo gli anni della pandemia e del distanziamento sociale, lo spettro della guerra in Europa, ma anche un’analisi di quanto ossessiva sia divenuta l’attenzione attorno al corpo: un corpo-prodotto, che vive molto di più ma dura molto meno, un corpo-politico, l’idea della bellezza come forma di identità, un corpo-schiavo dei dettami della moda per essere guardato e desiderato, un corpo costruito, trasfigurato, un corpo-esposto, un corpo-immagine. Un corpo che si confronta con il progressivo venir meno dell’idea dell’immortalità, declinando la salvezza in salute avvalendosi di ritualità contemporanee quali diete, esercizi fisici, digiuni intermittenti, trattamenti di bellezza».
Sul tema avevamo già proposto una riflessione su Eppen dedicata all’edizione 2019 della manifestazione.
Anche in questa edizione «Artdate» (qui il programma completo) sarà inaugurato, giovedì 10 novembre alle ore 19, al Palazzo della Ragione in Città Alta, dall’apertura di un focus espositivo che quest’anno è curato da Giacinto Di Pietrantonio e Stefano Raimondi. Fino al 29 gennaio, la mostra «Arte in Opera» mette in scena connessioni e dialoghi tra le opere di tre artisti di caratura internazionale quali Giulio Paolini, Salvo e Jonathan Monk, con un progetto d’allestimento curato da Marzia Minelli che comprende i tavoli di autoprogettazione di Enzo Mari.
La mostra secondo Giacinto Di Pietrantonio
«“Arte in Opera” trasforma la Sala delle Capriate in una grande arena aperta in cui si alimentano tempi e storie (dell’arte) e si analizza il tema dell’autore e dell’autorialità»: appare chiaro sin dalla presentazione che non si tratterà di una mostra “facile”, almeno per chi ha desiderio di mettersi in gioco per percorrere tutti i fili rossi che si accenderanno tra le opere degli autori proposti.
Non proveremo nemmeno a cimentarci nell’impresa improba di fornirvi una “descrizione” delle opere in mostra, che sanno comunicare a tu per tu con lo spettatore – con un’immediatezza che non possono avere le parole – la loro complessa stratificazione di significati, relazioni e domande aperte.
Abbiamo chiesto, tuttavia, a Giacinto Di Pietrantonio – che risalutiamo a Bergamo a distanza di circa 5 anni dal cambio di direzione della nostra GAMeC, guidata per quasi 18 anni – di suggerirci qualche chiave di lettura e qualche interrogativo da portare con noi quando visiteremo la mostra: «Questa mostra nasce sul piano della relazione tra tre artisti internazionali, appartenenti a generazioni diverse. È curioso come di fatto gli artisti si siano scelti da sé: gran parte del lavoro di Monk fa riferimento agli artisti concettuali italiani degli anni Sessanta e Settanta, con un particolare interesse proprio per Paolini e per Salvo. Di qui l’idea di metterli in relazione per costruire un percorso che lavora sull’idea della comunità dell’arte. Come in una storia che coinvolge diversi protagonisti, le opere di Monk e Salvo trovano poi collocazione sui tavoli di autoprogettazione proposti da Enzo Mari nel 1974, in cui il designer, cinque volte Compasso d’Oro, ha deciso di pubblicare i progetti e i disegni costruttivi di mobili, rilasciandoli con licenza libera e aperta, allargando e mettendo in discussione il concetto di autore».
Di qui il senso del titolo «Arte in opera»: «Quelle in mostra – prosegue Di Pietrantonio – sono opere che riflettono sull’idea dell’autore e che l’opera non sia mai finita se non quando interviene lo spettatore: chi è l’autore dell’opera? È solo l’artista o anche lo spettatore che entra in gioco guardando l’opera?»
Liberiamoci dai complessi
Ci sfugge, a dire il vero, come i temi proposti dalla mostra – che pure sono cruciali – siano concretamente in relazione con il tema che guida il Festival, «Corpo libero». In ogni caso ben venga se ad essere affrontato è il circuito autore-opera-spettatore, che è uno dei nodi più dibattuti di sempre nell’arte, ma ovviamente anche in letteratura, teatro e cinema.
Perché la questione del ruolo dello spettatore non si può liquidare come una noiosa elucubrazione intellettuale, ma è una questione culturale, sociale e politica. L’arte può permettersi di continuare a pensare allo spettatore come una semplice “stazione ricevente” del messaggio inviato dall’autore? Può permettersi di rivolgersi al suo pubblico come a un contenitore vuoto da riempire e da educare?
Oggi in questo senso, noi spettatori siamo figli di un cortocircuito. In parte non ci siamo ancora del tutto liberati dal retaggio di una “tradizione” che ci aveva abituato alla netta separazione autore/spettatore, con l’assegnazione al primo del ruolo assoluto di creatore e al secondo di fruitore passivo, cui al limite era concesso di esprimere un giudizio su un’opera che tuttavia era “autosufficiente”, viveva di vita propria ed esprimeva da sé il proprio significato. Un complesso di inferiorità che noi spettatori non siamo ancora riusciti a spazzare via completamente.
Per contro, una bella fetta del sistema dell’arte oggi, in nome del famigerato audience development – in pratica l’elaborazione di strategie per allargare e diversificare il pubblico, anzi «i pubblici», perché il plurale oggi è imperativo – punta su di noi tutta la sua attenzione, pretendendo di conoscere, controllare e gestire le nostre aspettative, i nostri desideri, la nostra interpretazione di un’opera d’arte, in pratica la nostra esperienza di spettatori. «Peccato che nell’arte, le immagini la sanno sempre più lunga dei loro autori, così come dei loro spettatori» (Stefano Chiodi).
Ce lo insegna il caso, che ha fatto scalpore proprio in questi giorni, dell’opera di Piet Mondrian «New York City I». Si scopre infatti che è stata sempre appesa a testa in giù e che per oltre settant’anni il pubblico ha ammirato un capolavoro al rovescio, non in uno ma in due musei, prima al Moma di New York e poi al Museo di Arte moderna e Contemporanea del Reno-Westfalia a Düsseldorf. Moltissimi addetti ai lavori sono inorriditi e inconsolabili, ma lo spettatore non si scompone. Affascinato dalla composizione di Mondrian, dritta o rovescia che sia, fa semplicemente tesoro della suggestiva esperienza di dialogare con un’opera aperta. Del resto l’arte astratta non è inclusiva e aperta per definizione?
In sostanza, per riallacciarci al titolo della mostra di «ArtDate», «Arte in opera», ci pare evidente che a mettere l’«Arte in opera» non sia l’artista ma lo spettatore. E siamo felici che il mondo dell’arte contemporanea lo abbia compreso e si stia muovendo in questa direzione.
È ora di rivendicare a pieno titolo il nostro ruolo costitutivo nel mondo dell’arte. Non può esistere un’opera d’arte senza uno spettatore, così come non può esistere un libro che nessuno è in grado di leggere.
Per tutti questi motivi, da spettatori finalmente e orgogliosamente attivi, ci piacerà mettere alla prova dell’«opera aperta» anche i lavori di Paolini, Salvo e Monk che incontreremo al Palazzo della Ragione. Con una piccola sfida da lanciare a tre artisti che da sempre hanno messo al centro della loro ricerca il tema dell’autorialità, del narcisismo dell’autore e del rapporto con lo spettatore: siete davvero disposti ad affidarci le vostre opere e a correre il rischio che il nostro modo di vederle, viverle e interpretarle vada oltre tutte le vostre intenzioni? Se non è così, ce ne accorgeremo.
Info
«Arte in Opera. Jonathan Monk, Giulio Paolini, Salvo»
11 novembre 2022 – 29 gennaio 2023
Venerdì – domenica 10-19
Ingresso Euro 5. Gratuito per gli Under 14.