Tra le affascinanti e insolite architetture dell’oratorio di San Lupo, l’artista Maurizio Mazzoleni ha innalzato un prisma ottagono monolitico, verticale, alto poco più di dodici metri, che “germoglia” da un campo di spighe e comincia a crescere a dismisura (un po’ come la pianta del racconto popolare di “Jack e il fagiolo magico”), scalando matronei e balconate fino a raggiungere il cielo affrescato sul soffitto.
Le facce di questo grande prisma sono rivestite da 1600 fogli-segno: atti di pittura di pochi secondi trasformati in vocaboli sfuggiti al flusso del tempo.
Ma che cosa ci propone la mostra “Toccare il cielo con un mito”? Una torre per sfidare il cielo o per ricordarci il senso del limite?
Torre di Babele: dono o castigo?
Chissà perché ci hanno sempre propinato il racconto della torre di Babele, la leggendaria costruzione di cui narra la Bibbia nel libro della Genesi, semplicemente come il paradigma della follia dell’uomo che pensa di poter sfidare Dio arrivando a toccare il cielo. Un atto di arroganza che, ci viene detto sin da bambini, Dio ha punito con la confusione delle lingue e, di conseguenza, con il caos che regna laddove c’è incomunicabilità e divisione.
Poi però ci capita di leggere considerazioni come quella del filosofo Karl Popper: “Non credo all’opinione diffusa che, allo scopo di rendere feconda una discussione, coloro che vi partecipano debbano avere molto in comune. Anzi, credo che più diverso è il loro retroterra, più feconda sarà la discussione. Non c’è nemmeno bisogno di un linguaggio comune per iniziare: se non ci fosse stata la torre di Babele, avremmo dovuto costruirne una”.
Ancora una volta c’è da stupirsi della reale complessità che è intessuta nel testo biblico. La prospettiva si ribalta e si intuisce che il vero motivo del fallimento della società babelica deve essere ricercato proprio in quella “omologazione” che oggi ci sta portando nuovamente alla deriva.
È in una società che parla la stessa lingua, in cui non c’è diversità di espressione né pluralismo culturale, che nasce quell’aspirazione a crescere in verticale che produce modelli di integralismo, di dominio, di totalitarismo, di antropocentrismo.
La torre di Babele, dunque, più come un dono che come un castigo. Parola del cardinale Gianfranco Ravasi, in una lectio magistralis tenuta ad Assisi sulle “differenze necessarie”: “Il sogno dell’imperialismo di Babilonia era quello di imporre un ’unico labbro’, come si dice nell’originale ebraico del cap. 11 della Genesi, cioè una sola lingua, una sola cultura, una sola concezione della vita, precettata a tutti. È ciò che sta alla radice anche del razzismo e della xenofobia che purtroppo sta riaffacciandosi col suo volto aggressivo nei social, nei vari populismi attuali e persino nel nostro Paese segnato da una civiltà dialogica così alta. Contro questa arroganza che disprezza l’altro, condannata da Dio, è necessario tutelare la ricchezza dei colori dell’arcobaleno delle culture e delle etnie volute dal Creatore”.
Se Dio non ci avesse punito, dunque, oggi non ci sarebbe l’Altro, non ci sarebbe confronto, non ci sarebbero il dubbio e la metafora. In sostanza non godremmo di quel tesoro inestimabile della diversità che fa sì che anche una singola parola, persino la stessa medesima parola, sia una stratificazione inesauribile di sensi e di memoria: “Certo e notabilissimo si è che tutte le parole […] alle quali noi siamo abituati da fanciulli, ci destano sempre una folla di idee concomitanti, derivate dalla vivacità delle impressioni che accompagnano quelle parole in quella età, e dalla fecondità dell’immaginazione fanciullesca; i cui effetti […] si legano a dette parole in modo che durano […] per tutta la vita […]. Variano secondo gli individui; e quindi non c’è forse un uomo a cui una parola medesima produca una concezione precisamente identica a quella di un altro; come non c’è nazione le cui parole esprimenti il più identico oggetto, non abbiano qualche menoma diversità di significato da quelle delle altre nazioni”. (Leopardi, Zibaldone, 15 settembre 1821).
È grazie alla torre di Babele se fino ad ora abbiamo scongiurato la minaccia inquietante dell’“uomo a una dimensione” (Marcuse). Dobbiamo ringraziare quella torre se abbiamo arte, poesia, memoria. E con esse, la libertà.
Una torre per sentirsi infinitesimamente piccoli
L’archetipo della torre di Babele è uno dei più impressi nell’immaginario collettivo e nella storia dell’arte. E si riaccende, inevitabilmente, anche al cospetto del prisma eretto da Maurizio Mazzoleni in San Lupo.
Come un “babelico” contemporaneo, l’artista ha costruito la sua torre mattone per mattone, segno dopo segno, e ci ha stratificato memoria, esperienze, emozioni, inconscio. La “memoria” delle mani, di una capacità del fare appresa nel mondo del lavoro e poi riversata in un itinerario artistico. La natura che diventa colore, foglio dopo foglio: il nero di carbone (nerofumo o carbon black) che è prodotto dalla combustione, e una gamma di terre raccolte e setacciate direttamente dall’artista per essere trasformate in pigmenti.
Il disegno di una pianta ottagonale, perché la figura geometrica dell’ottagono, così come il numero otto, sono simboli di mediazione tra la terra e il cielo (Ambrogio, il vescovo di Milano, introdusse la forma dell’ottagono per i battisteri a sottolineare il significato del battesimo come unione tra l’infinito di Dio e il finito dell’uomo).
Una “scrittura automatica”, un succedersi di gesti pittorici ossessivamente ripetuti fino a lasciar emergere il flusso dell’inconscio: “Ciò che fa naturale un gesto è la sua ripetizione – dichiara Mazzoleni – ossia l’impadronirsene a tal punto da renderlo imprevedibilmente e naturalmente diverso nella sua ripetitività”.
La memoria dell’esperienza universale dell’infanzia, dove il grande è immenso e le altezze sembrano non avere fine. Il vissuto personale dell’artista che da bambino, vivendo a Pontida, osservava con perplessità le colonne della Basilica e si arrampicava sui castagni secolari per sperimentare, vinta la paura, un nuovo punto di vista. La torre di Mazzoleni, dunque, è una sfida lanciata a se stesso e a tutti coloro che la osservano.
“Babelica” sì, ma nel senso più autentico del termine. Perché è una torre che, attraverso il linguaggio segnico dell’arte, non ci fa sentire così potenti da poter toccare il cielo. Al contrario, ci fa sentire infinitesimamente piccoli. Proprio come il lettore che si avventura nella “Biblioteca di Babele” immaginata da Jorge Luis Borges per contenere tutte, ma proprio tutte, le possibili combinazioni del linguaggio. Piccoli, insomma, al cospetto di un intero universo.
L’artista
Maurizio Mazzoleni è artista schivo, poco avvezzo al “sistema dell’arte”, di certo non uno di quelli che hanno l’ansia di “sfornare” mostre di continuo. È nato a Bergamo nel 1957 e vive e opera a Pontida.
Negli anni 1980-82 frequenta l’Accademia Carrara sotto la guida di Erminio Maffioletti. La formazione prosegue a Urbino e poi all’Accademia di Brera, dove si diploma nella sezione di pittura diretta da Luciano Fabro. Nel 1986, si aggiudica il premio San Fedele a Milano con un’opera selezionata dal celebre collezionista Giuseppe Panza di Biumo. Nel 2001 l’incontro con Luciano Caramel e la mostra alla Libreria Bocca di Milano.
Info mostra
“Toccare il cielo con un mito” a cura di Giuliano Zanchi e Andrea Zucchinali
Dove: Ex Oratorio di San Lupo - Bergamo, via San Tomaso 7
Quando: fino al 19 gennaio 2020
Orari:
venerdì: 15.30 - 18.30
sabato e domenica: 10.00 - 12.00 / 15.30 - 18.30
Prenotazioni: tel. 320 277 6066