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Sei opere d’arte e architettura discutibili a Bergamo

Articolo. Il Triangolo, il Seminario e il “muro” dell’Autostrada. Ma anche due Arlecchini controversi e una “zuppiera” come fontana

Lettura 4 min.

Ci siamo abituati. L’architettura e l’arte pubblica fanno discutere gli addetti ai lavori e spesso non incontrano il gusto del pubblico. Se poi di mezzo ci si mette anche la politica, la querelle diventa difficile da sbrogliare. Si spazia dal dibattito sui criteri estetici alla raccolta firme per chiedere la distruzione dell’oggetto del contendere. E, naturalmente, oggi non mancano i match sui social tra detrattori e sostenitori.

Che si tratti di generica diffidenza,di irriducibile ostilità verso il nuovo, di nostalgia per le forme rassicuranti della tradizione, di una semplice (e pur sempre legittima) questione di gusto personale o di scelte realmente sbagliate in tema di cultura urbana, una cosa è certa. Anche nella storia di Bergamo non sono mai mancate le turbolenze, i dibattiti e le polemiche all’apparire di nuove e più o meno iconiche forme nei luoghi chiave della città. Di seguito un piccolo florilegio bergamasco, senza entrare (quasi mai) nel merito della ragione e del torto, e nemmeno dei complessi meccanismi che si nascondono dietro le scelte di progettazione urbana.

La domanda più interessante sembra essere un’altra: perché queste discussioni riescono a coinvolgere proprio tutti, dagli addetti ai lavori a chi non ha la minima dimistichezza con l’argomento arte o architettura? Perché significa che, piaccia o non piaccia, l’oggetto in questione è comunque riuscito a mettere in gioco il fattore sociale e il nostro modo di abitare la città, requisiti senza i quali nessuna opera d’arte e nessuna architettura può aspirare ad essere “pubblica”.

Il Triangolo no

Il complesso polifunzionale “Il Triangolo”, all’incrocio tra via Palma il Vecchio, via Manzù e via San Lazzaro è certamente uno degli interventi progettuali più controversi nella storia urbana di Bergamo, ma anche un “segno forte”, che è entrato solidamente a far parte dell’immagine della città.

Fu contestata al suo apparire e ancora oggi divide questa architettura nata come riconversione dell’area su cui sorgevano le ex Officine Zopfi. Co-progettato nell’ultima versione da Giuseppe Gambirasio con Giorgio Mandelli, Carlo Poli, Pippo Traversi, Aldo Trevisan, Claudio Villa e Giorgio Zenoni (1989/1990), il Triangolo è frutto di una lunga esecuzione. Così che tra la prima versione e quella effettivamente realizzata trascorrono vent’anni.

Alcune idee rimangono inalterate, come quella di costruire un nodo urbano e un complesso polifunzionale capace di unire pubblico, privato e verde. Ma la scelta finale di “rivestire” i tre lati del Triangolo con quei giganteschi pilastri, alti più di sedici metri, non ha di certo giovato a un “disegno” che, nel bene o nel male, era capace di definire un luogo.

Lo skyline di Città Alta

Da sempre un’icona intoccabile, un patrimonio collettivo che i bergamaschi sono pronti a difendere con le unghie e con i denti. È prima di tutto in nome del profilo turrito della città antica che nel 1962 scoppia lo “scandalo” della ricostruzione del Seminario Vescovile sul colle di San Giovanni.

Benché fosse voluto e sostenuto dall’amatissimo Papa Giovanni XXIII, il progetto scatenò da subito aspre polemiche che si protrassero per oltre sette anni, tra discussioni interminabili, dibattiti sui quotidiani, accese trattative politiche. Gli oppositori protestavano contro lo “sventramento del colle”, le demolizioni di strutture preesistenti, l’irreparabile modifica della morfologia del profilo della città con l’inserimento di un’opera del tutto fuori scala tanto da apparire come una città nella città.

I sostenitori invece sottolineavano la moderna valenza progettuale, le soluzioni funzionali e impiantistiche all’avanguardia, la capacità di recuperare spazio con le strutture sotterranee, compresa la famosa chiesa ipogea (che ad oggi è considerata come una delle architetture religiose contemporanee più interessanti del nostro territorio).

Quarant’anni dopo, lo skyline di Città Alta è di nuovo nell’occhio del ciclone, per la costruzione di quello che ancora oggi è soprannominato il “muro” di via Autostrada, un progetto da quarantacinque mila metri cubi e quaranta milioni di euro di investimenti, portato avanti dal 2009 a spizzichi e bocconi. Sei piani per ventiquattro metri di altezza, il gigante edilizio – che oggi per intenderci ospita la Coop e un ristorante – scatenò un’ondata di proteste perché accusato di oscurare il profilo iconico di Bergamo Alta per chi arrivava dalla A4. Tra polemiche e ricorsi, le proteste ottennero quantomeno, a salvaguardia dello skyline, una riduzione delle volumetrie del complesso.

Povero Arlecchino

È la nostra maschera più amata, la più enigmatica e complessa tra quelle della Commedia dell’arte, ma Arlecchino a Bergamo non sembra proprio trovare pace, almeno nell’arte pubblica.

Non c’era verso di trovare una casa per l’Arlecchino di Mario Gotti (foto in primo piano), la scultura che il Ducato di Piazza Pontida dona, nel 2003, al Comune di Bergamo perché sia posta sulla nuova fontana di Largo Rezzara. E quando si entra nel campo dell’arte pubblica, il proverbio “a caval donato non si guarda in bocca” può essere molto, molto pericoloso.

Il progettista della fontana, Alberto Garutti (ma non lui solo), si oppone arrivando a ricorrere al Tribunale, così l’opera viene catapultata al centro di un vero e proprio tormentone. Polemiche, dibattiti, raccolta firme: tutti la vogliono ma nessuna se la piglia. Otto anni di peregrinazioni: prima parcheggiata nei magazzini comunali, poi il trasloco in una casa di riposo in Valle Imagna quindi, sfumata l’ipotesi dei giardini del teatro Donizetti, l’illusione di un approdo nella corte del Palazzo della Provincia. Dalla fine del 2011, l’Arlecchino di Gotti sorride a cittadini e turisti davanti all’Urban Center, in Piazzale degli Alpini. Ma dopo tanto girovagare, nessuno sembra notarlo più.

Dal 2015 troneggia invece dall’alto dei suoi cinque metri di altezza per diciotto tonnellate di peso, sulla rotatoria di Villa d’Almè, la gigantesca statua di Arlecchino voluta dalla Comunità Montana Valle Brembana (foto sopra), realizzata grazie al sostegno di imprenditori locali e Comuni della valle, come “porta turistica” della Valle Brembana.

Lasciamo da parte per un attimo le disquisizioni sui costi (circa 60.000 euro) e concentriamoci sul manufatto in sé. Sono in molti ad abbassare prontamente l’aletta parasole quando in auto incontrano l’“Arlecchino più grande del mondo”, un’opera quantomeno discutibile dal punto di vista estetico. E che senso ha avuto – si chiedono i detrattori – realizzare la statua in materiali pregiati e costosi (marmo Bianco di Carrara e Arabescato Orobico) visto che la scultura è stata poi completamente dipinta di colori lucidi e sgargianti, dall’effetto un po’ troppo “plasticone”? Tanto valeva realizzarla in resina o in cemento.

L’autore della statua all’inaugurazione fu annunciato come “lo scultore del Duomo di Milano”. È vero, Nicola Gagliardi da anni collabora con la Veneranda fabbrica del Duomo, ma per eseguire repliche di sculture provenienti da terrazze e guglie, ormai erose o irrimediabilmente danneggiate. Ineccepibili, ma pur sempre copie.

Fontana o zuppiera?

Bergamo, si sa, è anche città di fontane. Perciò se “sbagli” una fontana, non contare che i bergamaschi se lo scordino. Ci è cascato anche l’architetto Alziro Bergonzo che oggi è impresso nell’immaginario diffuso non tanto per il monumentale progetto della Casa della Libertà, compiuto nel 1940, ma per la fontana progettata per la piazza quando mezzo secolo dopo fu chiamato a completare il complesso.

Inaugurata sul finire del 1996, quando Bergonzo era novantenne, la fontana fu travolta da un mare di polemiche: un’altissima “zuppiera”, che riserva la vista dell’acqua soltanto a chi abita ai piani alti. Apparve subito a molti un’opera sproporzionata e antistorica perché realizzata decenni dopo la sua progettazione. Su una cosa quasi tutti concordano ancora oggi: che senso ha una fontana che non ti lascia godere della vista dell’acqua? L’emoticon perplesso di WhatsApp ci sta perfettamente. Già all’epoca dell’inaugurazione ci fu chi lanciò un’idea niente male: perché non completare la fontana con una graziosa scalinata per consentirci di dare una sbirciatina?