Curata da Chiara Gatti e Lorenzo Giusti, la mostra nasce dall’acquisizione da parte della GAMeC e del Centre Pompidou di Parigi di un importante nucleo di opere dell’artista e mira ad analizzare – dagli esordi negli anni Venti fino ai primi anni Settanta – “la riflessione formale di una personalità unica, rimasta a torto ai margini della storia e riscoperta adesso quale figura complessa, sperimentatrice, versatile e poetica … la prima donna dell’avanguardia italiana a dedicarsi interamente alla scultura, di cui ha riletto i linguaggi in direzione audace e sperimentale, piegando la ricerca accademica e naturalistica all’uso di materiali inediti … una continua e inesausta indagine compositiva ed espressiva che ha abbracciato inizialmente i modi del Futurismo (firma nel 1934 il ‘Manifesto tecnico dell’aeroplastica futurista’) e poi quelli del MAC, il Movimento arte concreta (1948), a cui Regina si avvicina nel 1951 grazie a Bruno Munari”.
In mostra 250 opere – tra sculture, mobiles, disegni, cartamodelli e taccuini – che ci guidano in un percorso per temi ed epoche, intrecciando i contatti con i movimenti dell’avanguardia e le vicende biografiche, dal Ventennio al boom del dopoguerra.
Il fascino irresistibile dell’avanguardia mentale
“Sono sempre stata all’avanguardia, almeno come pensiero”
(Regina)
Lasciando al percorso espositivo, così ben costruito, e al catalogo che lo accompagna, il compito di dare una scansione cronologica, tecnica e tematica all’itinerario creativo di Regina, ciò che ci affascina da subito di questa figura è la sua personalità unica, inconsueta, originale, che ci avvicina con stupore all’“avanguardia mentale”, quella vera, di questa scultrice (prima ancora di quella artistica, sempre che le due cose si possano distinguere, ma ne dubitiamo).
L’identità di un artista, quando vale la pena di essere esplorata, è un’avventura impagabile. Alla faccia dei sempre più numerosi e astuti creativi contemporanei che hanno deciso di non rivelare la propria identità, di quei critici che ritengono di saper interpretare il pensiero di un artista meglio di un artista stesso e di quegli artisti che li lasciano fare o che se ne stanno in silenzio, con il pretesto che l’opera parla da sé.
Nell’identità di un artista come Regina tutto parla in un unicum: vita, opere, pensiero, personalità. È un valore aggiunto e si vede. Soprattutto quando, come in questo caso, è un’identità aperta, libera di vagare, sognare, esplorare, di certo non un’etichetta di appartenenza: “I miei pensieri non sono mai fissi, sono sempre disposta a cambiare opinione”.
Lo dimostra il passo lieve, svincolato da regole e modelli, con cui Regina ha di fatto attraversato le esperienze più significative dell’arte del XX secolo. Un passo inconfondibilmente femminile, ci permettiamo di sottolineare, ma molto diverso da quello dirompente delle amazzoni futuriste, come Valentine De Saint-Point, pronte a sfidare famiglia e pubblico per rivendicare la propria indipendenza, e a scrivere il “Manifeste de la Femme futuriste”, in risposta al “Manifesto del Futurismo” di Marinetti.
Chi è Regina?
“Fin da bambina avevo tanta fiducia nel progresso, da essere convinta di non morire più!
Ancora oggi, la speranza rimane”
(Regina)
Originaria di Mede Lomellina, figlia di un macellaio e orfana in giovane età, Regina Cassolo Bracchi era una donna schiva e indipendente, che conduceva semplicemente una vita borghese, in compagnia del marito pittore, Luigi Bracchi.
“Regina era ‘una donnina elegantina, smilzina, con un cappellino sulle ventitrè: era il ritratto di quella sua figura di latta’. Tutto era piccolo in lei, tutto era minuto e leggero. – scrive in catalogo Lorenzo Giusti – Piccola lei – con i suoi abiti bien démodè, con il suo ‘desiderio covato dentro di non apparire’ – e piccoli i suoi lavori di latta, cuciti magistralmente, come abiti su misura. Leggeri e poco ingombranti, come si addiceva a una donnina per bene in quell’Italia così fervente di modernità ed eppure così arcaica e patriarcale. Così appariva, al tempo, Regina: una piccola e domestica donna italiana, per quanto un po’ eccentrica, in un condominio di soli uomini: Luigi Bracchi, Giovanni Battista Alloati, Filippo Tommaso Marinetti, Marcello Nizzoli, Bruno Munari, Fillia, Carlo Belloli...”.
Come preparava questa Regina le sue sculture? Dagli immancabili schizzi sui taccuini, prendevano forma “cartamodelli” puntati con spilli, secondo una pratica sartoriale applicata alla vocazione aerea delle sue figure, che le serviranno per sagomare e piegare lamine metalliche senza incertezze, con energia e dolcezza.
I materiali selezionati, al contrario, denunciano una vocazione alla sperimentazione, alla tecnologia, al futuro, ma non sfugge come siano tutti all’insegna della leggerezza, della fragilità, delle sensazioni sottili. In sostanza, tutti anti-scultorei e anti-statuari: alluminio, filo di ferro, latta, stagno, carta vetrata, plexiglas.
Anche la sua partecipazione all’aereoscultura futurista, negli anni durante i quali Regina partecipa a tutte le Biennali di Venezia e alle Quadriennali romane, è del tutto originale. È evidente in una delle sue opere più note, “L’Amante dell’aviatore” (1935), dove il volo non è restituito da acrobatiche evoluzioni di aerei ma “è presente solo nei sogni della donna che, seduta sul divano, con la testa abbandonata nella corona delle braccia, immagina l’innamorato nei cieli di qualche paese lontano” (Elena Pontiggia).
La stessa cifra lirica e trasognata accompagnerà negli anni Cinquanta anche l’omaggio di Regina alle grandi rivoluzioni spaziali del suo tempo, in opere come “Sputnik” e “Terra-luna” o quelle dedicate ai cosmonauti Valentina Tereshkova, Charles Conrad e Alan Bean. Sculture come evocazioni geometriche che, più che celebrare le conquiste della scienza, paiono piccoli congegni per captare i segnali lanciati dal cosmo.
Regina si pone in ascolto anche della natura, provando a distillarne le geometrie perfette, in centinaia di disegni sparsi dedicati alla vegetazione spontanea, realizzati a grafite e spesso colorati con il succo delle foglie e dei petali strofinati, a comporre un suggestivo diario quotidiano di osservazione del mondo naturale.
La fascinazione di Regina per i misteri del linguaggio non verbale la condurranno a sperimentare direzioni sorprendenti, nel tentativo di “tradurre” suoni della natura e sensazioni in poesia visiva, fatta di segni e parole disegnate.
Così ne “Il paese del cieco”, lavoro in cui l’artista prova ad indagare linguaggio e sensazioni di un non vedente. E poi la serie di disegni dedicata alla traduzione grafica del suono delle campane, fino alle opere dedicate a decifrare “Il linguaggio del canarino”.
“Mentre macchine colossali su enormi tralicci ascoltano le voci dello spazio” scrive il marito Luigi Bracchi “le minuscole orecchiette di Regina ricevono messaggi dal suo canarino. Attenta a ogni flebile inflessione della sua vocina, la traduce graficamente interpretandone il linguaggio”.
“Kirk kirik vrik rich svitz” si legge in una tavola che riproduce simultaneamente anche il suono delle campane: “dan dan don dan”.
Foto di copertina: Danzatrice, Alluminio, cm 43 x 30 x 15, 1930, Collezione Archivio Gaetano e Zoe Fermani. Questa e tutte le foto di questo articolo sono di Alessandro Saletta e Piercarlo Quecchia - DSL Studio