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Quando l’arte era più innocente. Un altro Rinascimento a Palazzo Moroni

Articolo. Fino all’8 ottobre, nel salone da ballo dello splendido Palazzo di Città Alta, il FAI propone un viaggio dentro una differente percezione del Rinascimento bergamasco e bresciano

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«L’Età dell’innocenza» a Palazzo Moroni (© Giovanni Battista Righetti)

Una mostra differente, un altro Rinascimento: nell’affollato programma espositivo da Capitale della Cultura, spunta un’idea senza dubbio originale. Parliamo de «L’età dell’innocenza. Il Rinascimento a Bergamo e Brescia intorno al 1900», il progetto che il FAI propone al pubblico, fino all’8 ottobre, nello splendido salone da ballo di Palazzo Moroni, in via Porta Dipinta.

Curata dallo storico dell’arte Giovanni Agosti, con l’allestimento della scenografa Margherita Palli e le luci disegnate da Pasquale Mari, la mostra è straniante sin dal titolo, che da un lato allude al raffinato e spietato affresco dell’alta società newyorchese di fine Ottocento immortalato da Edith Wharton nel romanzo che gli valse nel 1921 il premio Pulitzer (ma anche al capolavoro cinematografico che ne ha tratto Martin Scorsese), dall’altro ci propone di dimenticare per un attimo la prospettiva pre-caravaggesca con cui da un secolo ci hanno invitato a guardare al “nostro” Rinascimento bergamasco e bresciano. A Palazzo Moroni, la pellicola è riavvolta fino al 1900 circa, quando i connoisseur, gli intenditori d’arte come Bernard Berenson, Dan Fellows Platt o Sir Charles Eastlake, viaggiavano tra le raccolte di nobili famiglie, a caccia di opere di Lotto e Moroni, Savoldo e Moretto, ambitissime da collezionisti e grandi musei, soprattutto del mondo anglosassone.

La mostra, dunque, non si propone di raccontare uno o più autori e nemmeno di approfondire un tema o un arco cronologico, ma di ricondurci, come una macchina del tempo, in un momento in cui la storia dell’arte è stata molto diversa da quella che conosciamo oggi.

Come il set di un film, il salone da ballo di Palazzo Moroni torna idealmente ad essere un salotto aristocratico del primo Novecento, complice anche quella straordinaria cambusa di oggetti che sono i beni di proprietà del FAI: nell’intimità stregata del chiarore diffuso dalle lampadine a incandescenza, sotto le scene della «Gerusalemme liberata» affrescate sulla volta dal Barbelli, dodici dipinti del Cinquecento bergamasco e bresciano – Lotto, Previtali, Savoldo, Moretto e Moroni – tutti provenienti da collezioni private, occhieggiano i privilegiati visitatori tra consolles, lampade, tavoli da gioco, orologi da tavolo, porcellane cinesi, piante, bronzetti, poltrone e tappeti.

«La loro collocazione non risponde – sottolinea il curatore – a quella che avrebbero nei musei, nelle mostre, nelle case di oggi. Le opere d’arte sono presentate come si sarebbero potute esporre nel 1900 circa: quindi l’esercizio richiesto al visitatore va oltre l’apprezzamento dei singoli dipinti, pur così coerenti tra loro, per darsi a un confronto tra allora e ora». Tutto, infatti, in questa semi-oscurità, ci appare diverso, anche quei capolavori iconici del Moroni, come il «Cavaliere in rosa», che pensavamo di conoscere come le nostre tasche. «La mostra diventa occasione per ragionare sulle diverse modalità di percezione – prosegue Agosti – il pieno e il vuoto, per esempio; intorno al 1900 gli ambienti domestici erano sovraccarichi di oggetti, di arredi, di piante persino: e i dipinti dovevano fare strada in quella giungla di cose per arrivare a intercettare l’occhio, se non il cuore, dello spettatore. E poi la luce: al principio del Novecento la luce elettrica domestica era una novità e dava vita a contesti che oggi ci appaiono invece bui».

Nessuna preoccupazione di “pulizia” dell’allestimento, nessun dipinto isolato a parete, nessuna didascalia ai quadri e nessuna doccia di luce a svelare implacabile il più piccolo dettaglio: «Guardata dall’oggi – conclude Agosti – ci sembra davvero una disciplina più innocente la storia dell’arte di quel momento, che ancora si appagava di quel godimento estetico che oggi non ci basta più». Ci chiediamo quanto dovesse essere acuto l’occhio di quei conoscitori che, muovendosi in questa penombra, riuscivano tuttavia a cogliere la mano di un pittore in un minuscolo dettaglio rivelatore: «le memorie individuali, non solo quelle degli storici dell’arte, erano evidentemente più sviluppate».

Certo è una mostra sofisticata quella proposta dal FAI. È l’epifania di un mondo ormai scomparso, abitato da un cerchio magico e privilegiato di aristocratici, ricchi collezionisti, conoscitori, intellettuali, che all’alba del Novecento era ormai vicino a un tramonto che il fascino sottilmente perturbante dell’allestimento della mostra lascia presagire. La sua dissoluzione porterà con sé anche quella delle grandi raccolte d’arte. Anche da Palazzo Moroni partirà, nel 1952, uno dei quattro capolavori di Moroni che lo abitavano: quel «Cavaliere in nero» che oggi è custodito al Museo Poldi Pezzoli di Milano.

Unica pecca della mostra? Forse il periodo migliore per la sua programmazione sarebbe stato l’autunno/inverno. Il passaggio dalla luce accecante del sole di questa torrida estate all’oscurità del salone da ballo, dalle finestre rigorosamente oscurate da pesanti tendaggi, ha un che di “traumatico” e soprattutto di artificioso. È come spezzare l’illusione del visitatore prima ancora che abbia potuto viverla.

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