Cammino e spiritualità sono andati spesso di pari passo nella Storia. Vuoi perché i mezzi erano quelli che erano, vuoi perché camminare è una forma di meditazione molto intensa, vuoi perché i santi si spostavano per annunciare la Buona Novella. Ci sono tante testimonianze e leggende dei cammini di San Pietro, che attraversava le montagne alpine per raggiungere la Gallia. E che dire di San Francesco d’Assisi che nel 1219 camminò – facendo un lungo tratto via mare – sino in Palestina, rischiando la vita (era in corso la quinta crociata) per incontrare il sultano ayyubide al-Malik al-Kāmil e predicare il Vangelo. Ma potremmo citare anche Sant’Antonio da Padova, San Bernardo e via dicendo.
A Bergamo in queste settimane camminare significa Millegradini (quest’anno il 16, 17, 18 settembre), la camminata non competitiva per scoprire le bellezze della nostra Città Bassa e Alta – percorrendo ovviamente le tante scalette. Ma quest’anno significa anche Millegradini dello Spirito. Un percorso da comporre come si desidera alla scoperta delle Chiese di Bergamo e dei santi ad esse legate. Sei in tutto, di cui questo articolo è una guida essenziale ad ognuno di questi luoghi. Tre oggi e tre domenica: un’infarinatura per non arrivare impreparati alla visita di queste splendide chiese.
Chiesa di San Michele al Pozzo Bianco
La chiesa di San Michele al Pozzo Bianco (via Porta Dipinta, 45), nota ai bergamaschi come “la chiesa dei matrimoni”, è antichissima. Già nel 774 è infatti citata nel testamento di Taidone, un gasindo longobardo, dove è definita: la “Basilica di sant’Arcangelo Michele fuori le mura”; ovviamente le mura citate non sono certo né quelle veneziane di oggi e nemmeno quelle medievali: parliamo quindi della prima cinta muraria bergamasca, quella romana.
L’origine longobarda della chiesa è intuibile anche dal santo al quale è intitolata: l’arcangelo Michele, un santo guerriero come guerriero era il popolo longobardo. L’identificazione “del Pozzo Bianco” serviva per distinguere questa chiesa da quella, pure dedicata a san Michele, che si trova vicino alla Piazza Vecchia e che viene definita “dell’Arco”.
Se è certo che vicino alla chiesa ci fosse un pozzo (altrimenti il nome non avrebbe senso) trovarlo non è stato facile, perché probabilmente fu chiuso quando venne costruita la fontana che si trova in fondo al sagrato e nel tempo se n’era persa la memoria. Fu il sacerdote che si occupava di questa Chiesa a suggerire di scavare in fondo al sagrato perché il contadino che lavorava per le suore del Buon Pastore glielo aveva indicato. Fu così che il vecchio Pozzo con la vena in pietra bianca è stato recentemente ritrovato e per indicarne la posizione è stata posta una lapide.
La facciata in pietra viva è recente: è stata voluta nel 1915 da una famiglia della zona e realizzata alla fine della grande guerra per sciogliere un voto dopo che i figli, che avevano combattuto sul fronte friulano, erano tornati sani e salvi.
L’interno sorprende da subito per le dimensioni: si presenta oggi con una struttura quattrocentesca. Ad aula unica, è divista in tre campate da arconi ogivali che sostengono il tetto a capanna in travi di legno. La zona absidale è tripartita: la cappella centrale, completamente decorata, mostra affreschi cinquecenteschi sovrapposti ad un ciclo precedente, di cui rimane uno splendido “Cristo in mandorla”.
La cappella di sinistra è un capolavoro di Lorenzo Lotto che nel 1525 vi dipinse a fresco scene della vita della Vergine. Lotto partì da Bergamo prima di aver portato a termine il lavoro e la parte inferiore della cappella venne finita cinquant’anni dopo da Giambattista Guarinoni d’Averara, che decorò anche la cappella centrale e quella di destra. Anche le pareti laterali della chiesa, come lo scurolo sottostante, presentano affreschi interessanti e di epoche diverse, che vanno dal XII al XVI secolo.
Sant’Alberto da Villa d’Ogna (1214 – 1279)
È un santo bergamasco molto importante (lo troviamo sulla parete sinistra della chiesa) perché è uno dei primi santi laici: mercante di vino, viaggiava spesso da Villa d’Ogna a Cremona, era un uomo molto generoso che donava denaro ai poveri. Una leggenda popolare vuole che la consorte, stanca del denaro che il marito dava in elemosina, cercò di impedirgli di andare in chiesa e di fare la comunione. Ma la fede di Alberto era così forte che il Signore mandava da lui, ogni giorno, una colomba che gli porgeva la particola: è l’immagine che vediamo in questa chiesa, in cui Sant’Alberto è ritratto col cappello da commerciante
San Donnino (III secolo d. C. – 296 d. C.)
Patrono di Fidenza ma praticamente sconosciuto da noi. Eppure nella chiesa di San Michele al Pozzo Bianco c’erano due immagini che lo ritraevano: una grande pala del Bassano che ne raffigurava un miracolo, si trova oggi nella chiesa di Sant’Andrea, l’altro è un affresco quattrocentesco che si trova sul primo pilastro a sinistra in alto e che a prima vista sembra raffigurare una fanciulla. Cosa ci faccia San Donnino a Bergamo, e proprio in questa chiesa, non siamo ancora riusciti a scoprirlo.
Certo è che San Donnino – che secondo la leggenda era sopravvissuto al morso di un animale selvatico – era considerato il protettore contro la rabbia, che al tempo mieteva ancora molte vittime. Così per secoli qui, nel giorno della festa del santo, confluivano persone da tutta la provincia per poter bere del vino dal calice che conservava – nel piede – un dente del santo: le persone anziane della zona ricordavano che i fedeli arrivavano con i carretti e pernottavano in zona per poter essere i primi a compiere il gesto devozionale e a ricevere la benedizione col calice che racchiudeva la santa reliquia. Morì martire.
Chiesa di Sant’Andrea Apostolo
Abbiamo oggi la possibilità di poter rivedere questa chiesa (via Porta Dipinta, 39), che è stata chiusa per qualche tempo. Ciò si deve all’arrivo di don Giovanni Gusmini, che non solo sta provvedendo a importanti lavori di restauro della chiesa e dei capolavori che ospita, ma ne sta facendo un centro culturale. Tanto che proprio sotto la chiesa è stato allestito un museo che raccoglie i tanti tesori di questa chiesa e di quella del Pozzo Bianco.
Una chiesa intitolata a S. Andrea è presente in questa zona già dal V secolo: parliamo quindi di una chiesa paleocristiana; documentata nel 785 d. C., era una chiesa cimiteriale ed è stata a capo di una “vicinia” molto estesa e importante.
Sulle rovine di questa chiesa (probabilmente distrutta, come gran parte della città, durante le incursioni barbariche) venne edificata successivamente una nuova chiesa, di cui si hanno notizie certe in un documento del 1187: a pianta rettangolare era costruita, secondo il rituale antico, con l’altare rivolto a est e la facciata a ovest ed era molto più piccola di quella attuale. Occupava poco più dello spazio absidale ed era posta sopra uno sperone di roccia che scendeva a picco verso mezzogiorno. Si trovava a un livello di parecchi metri inferiore a quella attuale, cioè al livello dell’attuale cripta/teatro.
Dopo la costruzione delle mura veneziane, che aveva causato molti problemi rendendo impossibile l’accesso alla chiesa dal basso, nel 1592 la chiesa venne restaurata, dotata di una cupola e ampliata: sempre ad aula unica, aveva tre altari; sul soffitto, probabilmente a volta, spiccava il dipinto con la “Gloria di Sant’Andrea” del Padovanino, che aveva dipinto anche altre immagini per questa chiesa.
Nel 1805 la parrocchia di San Michele al Pozzo Bianco venne inglobata in quella di Sant’Andrea e la chiesa si trovò ad essere troppo piccola per contenere tutti i fedeli, il cui numero rese ancora più evidente il difficile accesso, costituito solo dalla ripida scala che scendeva dalla strada maestra (la già citata via Porta Dipinta).
Per tutte queste ragioni si decise di ricostruire la chiesa dedicata a Sant’Andrea Apostolo, portandola al livello della strada ed orientandola in modo diverso rispetto all’antica, per poter ottenere una costruzione ampia. Del progetto venne incaricato l’arch. Ferdinando Crivelli che tra il 1837 ed il 1847 costruì la chiesa attuale, ispirandosi alla chiesa dei Gerosolimitani di San Pietroburgo del bergamasco Giacomo Quarenghi.
Nella parte centrale della navata si apre l’ampia cupola. Il soffitto è quasi completamente piano e dipinto a finti cassettoni. Il presbiterio è sopraelevato di tre gradini, ha la stessa ampiezza della navata centrale e si chiude con il coro semicircolare, ripartito da sei semicolonne; il soffitto a botte si raccorda col catino absidale.
La chiesa è molto luminosa e prende luce dai due grandi finestroni semicircolari che si aprono nel vuoto degli arconi che sorreggono la cupola e da 4 sopraluci semicircolari delle navatelle laterali. Al centro della cupola c’è un lucernario a vetro. La facciata monumentale prevista dal progetto non venne mai realizzata a causa dell’esiguità dello spazio antistante.
San Domno, Sant’Eusebia e San Domnone?
Il 24 luglio 1401, nel corso di alcuni lavori, sotto l’altare venne scoperta un antico sepolcro che conteneva i resti di tre persone. Una errata interpretazione dell’iscrizione sulla lapide sepolcrale portò a credere che si trattasse di tre martiri cristiani dei primi tempi, che vennero canonizzati immediatamente e per i quali nacque nella gente della zona una grande venerazione (che si è persa nel tempo). Si chiamavano Domno, Eusebia e Domnone (questi ultimi i due nipoti). In realtà, a parte i nomi e il grado di parentela, non sappiamo altro di loro, se non che tutti e tre erano stati sepolti nella chiesa paleocristiana e poi traferiti nella successiva. La loro memoria si era probabilmente persa nel tempo e il ritrovamento dei loro resti (nel 1401) portò alla nascita di una grande devozione.
L’eco di questa devozione è arrivata fino a noi attraverso l’opera d’arte che è il “particolare” della pala d’altare della cappella di destra, che nella precedente chiesa era sull’altare maggiore e che raffigura tutti i santi protettori. È opera del Moretto (Alessandro Bonvicino, bresciano, prima del 1555), allievo del Moroni e straordinario artista. Raffigura quella che è definita una “Sacra conversazione”, una scena cioè nella quale i santi e, come in questo caso, la Vergine, sono a colloquio tra di loro. Maria, seduta su un trono che sembra la base di una grande colonna, si appoggia sopra una tela di broccato dai colori caldi; è rivolta verso Domno col quale sembra parlare, mentre Domneone, il nipote, si gira verso di noi per attrarre la nostra attenzione e guidarla verso Maria.
Il bambino Gesù sembra divincolarsi dalle braccia della madre per rivolgersi ad Andrea, guardando la croce come se ne fosse attratto, mentre Maria cerca di trattenerlo. Davanti ad Andrea, anch’essa colta mentre ci guarda fisso negli occhi, vediamo una dolcissima fanciulla, che riconosciamo come Eusebia: nelle sue mani, come in quelle di Domno e Domneone, la palma del martirio.
L’incredibile matericità dei tessuti, la resa della seta dell’abito di Eusebia, il tocco magistrale del velo che le copre leggermente le spalle ci consentono di arrivare preparati allo stupendo bacile di mele – precaravaggesco: Caravaggio nasce proprio dalla straordinaria naturalezza della scuola lombarda – che sta appoggiato in basso, in primo piano. Un bacile di metallo, la cui parte sinistra possiamo solo intuire, visto che è in ombra. Contiene delle mele che rappresentano una natura morta straordinaria. Un capolavoro dentro un capolavoro. Sulla destra, una colonna spezzata dice con chiarezza che le civiltà – e le religioni – del passato non possono che crollare miseramente all’arrivo del vero Dio. Ed è proprio dal crollo del passato che può fiorire la nuova fede, come il germoglio che nasce sulla destra.
Chiesa di Sant’Agata nel Carmine
Percorrendo la via Colleoni verso la Cittadella si incontra (al numero civico 29) la chiesa di Sant’Agata nel Carmine. È una denominazione curiosa, che riassume la storia di questa chiesa che, costruita su una precedente dell’XII secolo del convento degli Umiliati, divenne poi la chiesa del monastero carmelitano di Santa Maria del Monte Carmelo che è documentato dalla metà del 1300.
La chiesa, intitolata a Santa Maria Annunciata, venne più volte ampliata e ristrutturata dai carmelitani. A poca distanza dal loro convento sorgeva quello dei teatini (ordine di chierici regolari fondato nel 1524 da san Gaetano da Thiene e dal vescovo di Chieti, Giampietro Carafa, dedito alla cura dei malati e dei feriti) con la sua chiesa intitolata a Sant’Agata. Quando, nel 1797, vennero soppressi entrambi i conventi, il Vescovo Dolfin costituì la Parrocchia nella chiesa dell’ex convento dei Carmelitani: parrocchia e chiesa assunsero il nome di Sant’Agata nel Carmine per non perdere il ricordo dei due conventi.
La chiesa di Sant’Agata è a navata unica, con un profondo presbiterio, due absidi laterali e cinque cappelle per lato: tra queste la più importante e imponente è la Cappella dedicata alla Madonna del Carmine, che costituisce un corpo a sé, più sporgente rispetto al perimetro della chiesa; al suo interno presenta un maestoso altare barocco opera di Filippo Juvarra sul quale, in una teca, è presente la statua lignea della Madonna col Bambino, nell’atto di consegnare lo scapolare. La devozione alla Madonna del Carmine è molto viva nella zona e in tutta la città.
Le due cappelle laterali hanno mantenuto più di tutto il resto della chiesa alcuni elementi antichi, dalla volta costolonata della cappella di destra, dedicata a Sant’Apollonia, agli affreschi della cappella di sinistra, dedicata a Sant’Alberto Carmelitano.
Nella volta a botte si aprono finestroni che la rendono molto luminosa e tutta la chiesa presenta decorazioni, affreschi e stucchi. Preziose tele di artisti di epoche diverse e numerose opere d’arte straordinarie, alcuni dei quali provengono dalla soppressa chiesa di Sant’Agata, abbelliscono l’intera chiesa.
Sant’Anna e San Gioacchino (I secolo a.C. – I secolo d.C.)
Nella prima cappella di sinistra la Chiesa di Sant’Agata del Carmine presenta un prezioso polittico quattrocentesco di scuola veneziana, in stile gotico, in legno intarsiato e dorato, proveniente dalla precedente chiesa quattrocentesca, che presenta le figure della “Madonna col Bambino e santi”.
Normalmente i polittici sono costruiti attorno alla figura più importante, circondata con rigide scansioni geometriche da nicchie che ospitano le figure dei santi. Questo tipo di composizione ebbe grande fortuna nel Trecento e nel Quattrocento ma poi venne soppiantato dalla cosiddetta “Sacra Rappresentazione”, nella quale le figure sono in contatto – non solo fisico – tra di loro.
Qui alcune caratteristiche di entrambe. È senza dubbio un polittico in legno con le figure dei santi intorno alla Vergine. Ma le immagini non sono richiuse in nicchie: sembrano già prefigurare quella sintonia di sentimenti e di colloqui che caratterizzeranno le Sacre Conversazioni.
La Madonna – che con un’iconografia inconsueta tiene le mani giunte mentre il Bambino è sostenuto da un angioletto – è quella del Carmine, e lo si capisce anche dalla presenza, a sinistra della parte centrale, di Elia che sul monte Carmelo, in Palestina, costituì un gruppo di eremiti nel 93 d.C.. Si definivano “Fratelli della Beata Vergine Maria del Monte Carmelo”; dall’altra parte troviamo Eliseo, allievo e successore di Elia.
Nella parte centrale dell’ancona, alla destra di Maria troviamo i suoi genitori Sant’Anna e San Gioacchino, alla sua sinistra i dottori della Chiesa Anselmo d’Aosta, arcivescovo di Canterbury morto nei primi anni del 1100 e canonizzato nel 400, e San Girolamo, traduttore della vulgata. Poi vediamo Sant’Agostino e San Bernardo: la presenza del monaco richiama la sua grande devozione alla Vergine. Sua infatti è la preghiera che Dante mette nell’ultimo canto della Divina Commedia. Entrambi sono seduti a terra, sul gradino ai piedi della Madonna: è la posizione tipica dei mistici.
(grazie per la collaborazione a Rosella Ferrari)