Restaurare significa «rinnovare» o, ancora meglio, «rendere saldo, nuovamente». È una pratica tanto antica quanto affascinante: un restituire al presente la bellezza del passato, regalando alla contemporaneità – grazie all’evoluzione tecnologica – nuovi tasselli del suo patrimonio artistico e culturale. Talvolta capita che la pratica del restauratore venga mistificata: lo si immagina nel proprio studio, tra pennelli e strumenti di lavoro, senza considerare la complessità tecnica, intrisa di specifiche conoscenze scientifiche, necessarie per eseguire determinate operazioni.
A questo proposito, ho avuto la fortuna di intervistare Marco Fumagalli, affermato restauratore di Bergamo, in occasione del lavoro svolto sull’opera «Madonna con Bambino», attribuibile a un pittore belliniano cinquecentesco e di proprietà della Fondazione Opera Diocesana Patronato San Vincenzo. Il dipinto rispecchia una delle iconografie più frequenti dell’arte fino all’Ottocento: la Madonna, insieme a Gesù Bambino e San Giovannino vestito con pelli di cammello, è inserita in un paesaggio, qui di matrice lombardo-veneta.
L’operazione di restauro, voluta e finanziata dalla Fondazione Credito Bergamasco nell’ambito del progetto «Grandi Restauri», è ora esposta nel salone principale di Palazzo Creberg, in Largo Porta Nuova, in occasione delle festività natalizie. Sarà visibile fino al 19 gennaio, nei giorni feriali, dalle 9 alle 13, con ingresso libero. «Nel corso del 2023, in occasione del nostro 35° anniversario, ci siamo dedicati molto a restauri di grande rilievo e delicatezza. – afferma Angelo Piazzoli, presidente di Fondazione Creberg – In chiusura d’anno abbiamo avuto il grande piacere di essere accanto al Patronato San Vincenzo con il restauro di una importante, bellissima tavola che presentava notevoli problemi di degrado fisico. Si tratta di un gesto di vicinanza ad una meritoria istituzione, che svolge in Città un insostituibile ruolo sociale, culturale, educativo». Don Davide Rota, superiore dell’Associazione dei Preti del Patronato, grato per questo intervento da parte di Fondazione Credito Bergamasco ricorda, in fondo, che «il bello è come il pane, nutre ed educa alla vita buona». Un’opera d’arte riportata a nuova vita, allora, non può che diventare augurio sincero per l’anno nuovo.
Marco Fumagalli, originario della Val Seriana, da sei anni ha uno studio di restauro nel quartiere Loreto, a Bergamo, nel vecchio filatoio. Per Eppen racconta apertamente la sua incredibile passione per il suo lavoro, con un affondo relativo all’opera del Patronato appena restaurata.
CDM: Marco, lei fa il restauratore di professione ormai da anni. Ma cosa significa, per lei, restaurare?
MF: Innanzitutto è necessario fare una premessa, ovvero escludere da questa definizione la parte del mio lavoro che viene definita «restauro funzionale», cioè l’intervento volto a restituire praticità a un determinato oggetto (per esempio, lavorare una gamba di un tavolino perché possa tornare a stare in equilibrio). Se parliamo di dipinti, stiamo considerando il restauro estetico e conservativo; questo, per me, è semplicemente un cercare di riportare l’immagine il più vicino possibile all’originale.
CDM: Quali competenze entrano in gioco in questo processo?
MF: Di per sé il restauro è una disciplina molto intrigante perché coinvolge una serie di conoscenze ampissime; dobbiamo padroneggiare nozioni scientifiche di chimica e fisica, ma anche umanistiche, di storia dell’arte e delle tecniche artistiche. Inoltre, ci è richiesto di avere buone competenze pratiche, per esempio in falegnameria o nel maneggiare ago e filo. Tutto questo si lega alla conoscenza funzionale di quanto si adopera, nel capire come degrada un materiale, senza tralasciare una buona dose di intuito. Il nostro lavoro parte sempre da un’osservazione sistematica dell’opera, da cui stiliamo una serie di deduzioni: come può essere stata fatta? Con quale materiali? A tempera, a olio? A quale periodo risale? Questo ci richiede un imprescindibile e costante aggiornamento: i materiali cambiano, così come il mercato si evolve in modo vorticoso.
CDM: Prima di iniziare un restauro, come si pone nei confronti dell’opera che avrà tra le mani?
MF: Di base c’è uno studio importante, soprattutto per i dipinti antichi, fino all’Ottocento, dove è presente un’enorme casistica da considerare. Sicuramente una parte importante viene occupata dalle analisi non invasive sui dipinti, tra radiografie a raggi infrarossi e ultravioletti, oltre che da una programmata analisi del colore.
CDM: Come è nata la volontà di restaurare la «Madonna con Bambino»?
MF: Il dipinto era nella Sala delle Conferenze del Conventino, posto quasi in disparte. Si presentava come una tavola con evidenti problemi di sollevamento: di piccole dimensioni, molto sottile, delicatissima. La Fondazione Credito Bergamasco, che per sensibilità è attenta ai restauri e per la quale lavoro da tempo, mi ha fatto una proposta di intervento a ottobre, con l’intenzione di poterla mostrare per le festività natalizie; da lì, è stata una sfida contro il tempo, ma ora il dipinto è pronto e può allietare i visitatori. Sono grato alla Fondazione Credito Bergamasco e al dottor Piazzoli per la continua e costante fiducia che mi permette di intervenire quasi costantemente su opere da loro selezionate.
CDM: Qual è stato l’aspetto più critico di questa operazione di restauro?
MF: Il restauro di un dipinto su tavola antica è sempre impegnativo per l’incredibile delicatezza del supporto. In questo caso, in pioppo del XV secolo, la difficoltà era ancora più acuita dallo spessore, molto sottile, di appena 7 mm. L’opera, date le dimensioni (31,5 x 39 cm), si presenta quasi come una miniatura destinata alla devozione privata. Probabilmente lo spessore originale era maggiore ma, come succedeva nei restauri fino a circa sessant’anni fa, la tavola era già stata precedentemente assottigliata, fino a renderla piana; una volta raddrizzata era poi stata supportata sul retro da una «palchettatura», una griglia di assicelle incrociate, tali da poterla mantenere dritta nel tempo. Le tavole lignee naturalmente incurvate, infatti, erano considerate «degradate».
CDM: Cosa ha comportato effettivamente negli anni la presenza di questa palchettatura?
MF: Sicuramente ha causato delle forti tensioni sulla superficie dipinta che, nel tempo, si è staccata dal supporto in vari punti; si sono poi formate delle fiacche che, spaccandosi, sono cadute, causando la perdita di gran parte del dipinto.
CDM: Una volta registrate le cause del degrado pittorico, come ha proceduto?
MF: Con il funzionario della Soprintendenza, il dottor Angelo Loda, ho deciso di liberare la tavola dalla palchettatura, lasciando il legno libero di muoversi. In seguito, la superficie dipinta è stata consolidata alla tavola, dove sollevata, e pulita dalla spessa vernice ingiallita e dalle pesanti ridipinture stese nel tempo.
CDM: In seguito, una volta preparata la superficie, come ha raggiunto il risultato che possiamo ammirare oggi?
MF: Ho attuato una delicata e leggera operazione di reintegrazione pittorica, restituendo il dipinto nella sua delicatezza di colori e di lacche. Ho avuto cura di non intervenire troppo nella ricostruzione delle parti mancanti o rovinate da una precedente pulitura rovinosa; ho fatto in modo che un occhio «attento» riesca ancora a intravedere le parti «nuove», senza compromettere però la lettura armoniosa dell’intera composizione. Infine, delle vernici moderne e non troppo lucide proteggono l’opera senza alterarne i colori. Abbiamo raggiunto un dipinto molto raffinato: i ricciolini del Bambino sono meravigliosi! Alcune parti, purtroppo, sono rimaste rovinate, come San Giovanni e, a tratti, l’incarnato di Gesù. Il viso della Madonna, invece, è di qualità notevole, si è preservato in maniera magnifica. Mi ritengo molto soddisfatto del risultato di questa sfida, conclusasi anche con una settimana di anticipo.
CDM: Si legge che quest’opera è realizzata «alla maniera di» Giovanni Bellini. A che punto sono, a livello attributivo, le conoscenze relative all’autore?
MF: Proprio in occasione dell’intervento di restauro, Fondazione Credito Bergamasco ha promosso uno studio iconografico specifico della tavola, con l’obiettivo di arrivare a un’attribuzione il più possibile attendibile. Bellini è un nome molto importante: sono sincero nell’ammettere che la tavola in questione non raggiunge la sua qualità. Probabilmente è stata dipinta da un artista dell’entroterra veneto che utilizzava modelli belliniani, visti i molteplici richiami: si può notare, per esempio, la citazione quasi testuale degli alberi della cosiddetta «Madonna degli Alberetti» delle Gallerie dell’Accademia di Venezia.
CDM: Come riesce a mettere le sue competenze artistiche al servizio dell’opera? È sempre facile rinunciare all’arte come “sua” espressione personale per esaltare la configurazione artistica originale del bene che ha tra le mani?
MF: È molto difficile, lo ammetto. A me piace molto disegnare e dipingere, ho fatto anche una scuola di illustrazione nel passato. Rinunciare a rinforzare un’ombra o ad aggiungere qualche ricciolo «perché così sta meglio», a volte, provoca un conflitto interiore. In questo caso specifico, una parte del dipinto originale, le velature, volte a dare spessore alle figure, sono andate perse. Per un restauratore è impegnativo non agire sulle rotondità, è difficilissimo fermarsi, ma rientra nell’etica del nostro lavoro. Escludendo i musei e i beni culturali, a cui dobbiamo sottostare con regole ben precise, molte volte alcuni clienti privati chiedono di osare su un’opera, vorrebbero che agissi per ottenere un risultato che risponde al «bello» contemporaneo. Mi è capitato di rifiutare qualche lavoro; in fondo, non faccio il pittore di mestiere e moralmente non posso superare alcuni limiti con i miei interventi.
CDM: A livello espositivo, invece, come viene presentata l’opera, ora, nella sala principale di Palazzo Creberg?
MF: Mi sono permesso di dare un suggerimento. «La Madonna con il Bambino e San Giovannino» è una tavola abbastanza piccola: in un ambiente troppo grande il rischio che non venisse valorizzata era altissimo. Pertanto, ho creato un pannello colorato, di 60 x 80 cm, in modo che potesse emergere l’immagine. In seguito, ho creato una cornice lignea minimale, sempre con l’obiettivo di dare centralità ai soggetti raffigurati. Questa, in fondo, è un’occasione straordinaria per ammirare la tavola in tutta la sua bellezza; l’ente proprietario, infatti, non ha la possibilità di garantire una costante fruizione da parte del pubblico.
CDM: Quale valore aggiunto pensa che possa ricevere il nostro presente da operazioni di restauro come questa?
MF: Il restauratore riporta alla luce una parte del patrimonio di una comunità. Mi piace pensare che sia un conservare per il domani, per il futuro, ciò che viene dal passato. Per farlo, però, bisogna aggiungere senza rovinare l’opera e, soprattutto, prevedendone la conservazione. Le faccio un esempio: se viene usata una colla speciale per incollare due lembi, senza pensare che questa colla non potrà mai più essere levata, si sta già commettendo un errore. Il restauro deve essere reversibile, è uno dei postulati del nostro mestiere.
CDM: Trovo molto interessante questo restituire al presente senza sovrapporsi al passato, riuscendo a valorizzarlo. È una bella metafora del rapporto che dovremmo avere con la storia.
MF: In poche parole, la potenza del nostro lavoro.