Giannikopoulos si è infatti aggiudicato l’undicesima edizione dell’importante concorso internazionale dedicato ai giovani curatori under 30, ideato dalla GAMeC nel 2003 con il sostegno del Gruppo Bonaldi. Fino al 29 maggio è possibile visitare in museo la mostra pensata dal giovane curatore greco, partendo da una suggestione che solletica la nostra curiosità: il misterioso avvenimento storico della Piaga del Ballo, fenomeno sociale verificatosi in Europa tra il XIV e il XVII secolo, quando, in una sorta di isteria collettiva, gruppi di persone ballarono ininterrottamente in uno stato di trance per intere settimane, fino allo sfinimento e in molti casi alla morte.
La mostra rivisita questo episodio con i lavori di artisti contemporanei che esplorano il movimento del corpo come strumento e linguaggio ancora oggi capace di cercare e creare identità, relazioni, di abbattere i confini sociali: Benni Bosetto, Ufuoma Essi, Klaus Jürgen Schmidt, Lito Kattou, Petros Moris, Eva Papamargariti, Konstantinos Papanikolaou, Mathilde Rosier, Michael Scerbo ed Elisa Zuppini.
Ne nasce una sorta di rave artistico che «esplora i legami immaginari di questo episodio di contagio e viralità con le recenti espressioni culturali di resistenza», e si propone di esplorare la danza come mezzo per creare identità e resistenza culturale, come esplorazione e invenzione delle possibilità dei nostri corpi, come mezzo per entrare in relazione con altri corpi e trasformare noi stessi e le persone intorno a noi, come prassi interlinguistica che abbatte i confini sociali.
Ballo, dunque sono
Prima di visitare la mostra occorre spogliarsi delle più ovvie aspettative. La danza in scena alla GAMeC non è quella strutturata, coreografata e codificata che diventa spettacolo. Non è la danza “estetica”, che risponde a canoni di armonia, disciplina e regolarità. È interessante come ad essere affrontato sia invece il tema della danza come linguaggio a sé, che non ha similitudini con altri linguaggi, che è impossibile da tradurre in parole, come fenomeno che sfugge a ogni possibilità di definizione ma che pure ci risulta immediatamente familiare, perché tutti abbiamo praticato e pratichiamo la danza nella sua funzione archetipica.
È la danza come diritto di tutti ad esprimere la propria identità e a ricercare il proprio posto nel mondo, come percorso di consapevolezza, come espressione di un desiderio di trasformazione, come strumento per costruire relazioni e per misurarci con lo spazio e con il tempo, con la crisi e la guarigione, con i conflitti interiori e il loro superamento.
La mostra dunque non ci chiede perché e come danziamo, ma che cosa la danza racconti di noi e del mondo che non può essere espresso in altro modo: «Ballo ciò che sono», dichiarava la madre della danza moderna Isadora Duncan; «La danza inizia dove finiscono le parole» diceva il regista russo Aleksandr Jakovlevič Tairov; Nietzsche faceva notare che «coloro che furono visti danzare vennero giudicati pazzi da quelli che non potevano sentire la musica» e poi, rincarando la dose, «dovremmo considerare persi i giorni in cui non abbiamo ballato almeno una volta». Non meno radicale Samuel Beckett, che suggeriva «Prima balla, poi pensa. È l’ordine naturale».
Provocazioni di grandi pensatori? Per nulla. Non è un caso che il nuovo tormentone della primavera-estate 2022, «Dove si balla», sia per il suo autore, Dargen D’Amico, una canzone che parla «della necessità di movimento dell’essere umano, in tutti i sensi». È la danza come antidoto che tutti conosciamo bene: quella che può partire ovunque, anche tra i rottami, che ci fa stare a galla negli incubi mediterranei, che entra come una scossa nella notte di chi dorme senza sogni, che promette la catarsi dalla «brutta fine delle mascherine» o semplicemente dalla «nostra storia che va a farsi benedire».
Insomma, «ma va a capire perché si vive se non si balla».