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Letizia Battaglia non vuole essere chiamata «fotografa della mafia»

Intervista. Mercoledì sera a Cefalù è morta la grande fotografa siciliana. Aveva 87 anni ed era malata da tempo. Per ricordarla riproponiamo la nostra intervista che facemmo nel 2019, in occasione di una mostra a Treviglio

Lettura 3 min.
(Letizia Battaglia)

Letizia Battaglia è tra le fotografe italiane più famose nel mondo. E dal 16 marzo sarà in mostra a Treviglio. Ottantaquattro anni, un caschetto di capelli rosso fuoco, una Leica appesa al collo, una sigaretta, una voce graffiante. Poche parole che affondano sempre. Con il suo obiettivo ha testimoniato uno dei periodi più oscuri della storia del nostro Paese: la sua Palermo tra miseria e incanto, l’orrore dei delitti di mafia, i volti del dolore di chi è rimasto e, soprattutto negli ultimi anni, il riscatto nella bellezza delle donne.

Nel 1974 “L’Ora”, il primo giornale a pubblicare articoli sulla presenza mafiosa a Palermo, la nomina capo redattore. Nel 1985 è la prima donna europea a vincere a New York il premio “Eugene Smith “per la fotografia sociale. Ottiene un seggio in Consiglio Comunale come rappresentante del Partito dei Verdi e in seguito, con la giunta Orlando, diventa assessore alla vivibilità urbana.
Oggi continua a fotografare
e dirige il Centro internazionale di fotografia di Palermo. Nel 2017 è tra le donne dell’anno scelte dal New York Times e lo scorso febbraio è stato presentato alla Berlinale 2019 “Shooting the Mafia”: il documentario dell’irlandese Kim Longinotto dedicato alla sua vita e al suo lavoro.

«Fotografa della mafia» continuiamo a chiamarla. Un’etichetta che sta decisamente stretta a Letizia, Di se stessa infatti ci restituisce una biografia diversa da quella che i suoi scatti hanno finito per cucirle addosso.

BM: Chi è Letizia Battaglia?

LB: Sono una bambina di dieci anni che ne ha ottantaquattro. Ho fatto una vita interessante, piena di amore, curiosità, rabbia e tanto, tanto lavoro. Con gioia e piacere ho lavorato come fotografa ma ho anche lavato i piatti. Con grande gioia ho fatto l’assessore, con grande schifo il deputato. Mi è sempre piaciuto fare cose.

BM: Quando hai scelto di guardare il mondo attraverso l’obiettivo fotografico?

LB: Da bambina sognavo di fare la scrittrice, ma non fu possibile. Così pensai solo ad acquisire la libertà, sposandomi a sedici anni. Dopo tanti anni ho cominciato a guardare il mondo con il mio obiettivo, all’inizio solo per guadagnarmi il pane e la libertà, per non dipendere da nessuno, facendo la piccola giornalista a Milano che accompagnava gli articoli con le foto.

BM: Poi arrivò “L’Ora”.

LB: Fui richiamata a Palermo dal giornale “L’Ora” e ho cominciato a fare solo fotografia acquisendo piano piano conoscenza, amore, disciplina nei confronti della fotografia, che per me è diventata un mezzo potente di introspezione, non solo verso l’esterno ma anche verso me stessa. Con la macchina fotografica ho conosciuto meglio me stessa e meglio mi sono raccontata. Le mie foto raccontano il dolore, una situazione sociale, amore per le donne e per le bambine, ma soprattutto la mia inquietudine.

BM: Ti chiamano “la fotografa della mafia”.

LB: Ma che vuol dire? Casomai contro la mafia. Io non faccio solo la militante antimafia e la mia vita non la posso chiudere nel fotografare e nelle mostre. Sono una persona con vari interessi e la sola etichetta di fotografa mi sta stretta.

BM: Il prezzo più caro che hai pagato.

LB: Io ho sempre pagato un prezzo, a cominciare da quello per un matrimonio sbagliato. Ho ricevuto calci sia dai mafiosi che dalla polizia.

BM: E la più grande soddisfazione?

LB: La più grande emozione invece è stata quando mi hanno comunicato che io – piccola, sciagurata, povera fotografa – ero stata premiata a New York con il premio Smith per la fotografia sociale. Ho pianto tanto, non ci potevo credere. Ma a dire il vero la mia più grande felicità non me l’ha data la fotografia ma essere assessore nella città di Palermo: la gioia di levare la spazzatura, sistemare giardinetti, occuparsi dei detenuti nel carcere.

BM: Quali opere sceglieresti per una mostra che parli di te?

LB: I miei nudi femminili. Ho fotografato bambine, povertà e ricchezza, morti ammazzati, paesaggi e oggi, a ottantaquattro anni, mi piace fotografare la donna, con rispetto, dignità e orgoglio. Tutte le donne a cui chiedo un ritratto mi dicono sempre sì, perché non le umilio, non le banalizzo, non gioco con la sensualità e amo i loro difetti (come nelle Rielaborazioni, immagini femminili sovrapposte a fotografie sulle violenze e gli omicidi della mafia, ndr).

La mostra
“Letizia Battaglia. Per pura passione”
16 – 31 marzo 2019
Treviglio – Museo Civico Ernesto e Teresa Della Torre (Vicolo Bicetti de’ Buttinoni 11)

Alle immagini in bianco e nero della fotoreporter siciliana, molte delle quali sono icone in tutto il mondo degli anni bui delle guerre di mafia, il presidio della bassa bergamasca di Libera dedica la mostra che, in quarantacinque scatti di grandi dimensioni, condensa il racconto di alcuni tra i più tragici momenti della storia italiana. C’è la vita a Palermo: i ritratti delle bambine, i quartieri, le feste religiose, i fatti di cronaca, i funerali, gli sguardi, le donne, i salotti borghesi, il lavoro minorile, la disoccupazione, il degrado ambientale.

Ma soprattutto c’è la mafia. Dal 1974 Letizia Battaglia inizia a fotografare, giorno dopo giorno, i delitti mafiosi, documentando l’incedere della violenza: nel 1979, l’esecuzione con una raffica di mitra del magistrato Cesare Terranova e del maresciallo di pubblica sicurezza Lenin Mancuso; nel 1980, l’omicidio del Presidente della Regione Sicilia Piersanti Mattarella, fratello dell’attuale Presidente della Repubblica; l’uccisione di Salvo Lima, la strage di Capaci e la strage di Via D’Amelio, in cui vengono uccisi Giovanni Falcone e Paolo Borsellino.

La sua fotografia che ritrae Giulio Andreotti in compagnia del mafioso Nino Salvo all’hotel Zagarella è stata utilizzata nel processo contro Andreotti, come prova dei suoi legami con Cosa Nostra.

Con le sue fotografie, Letizia Battaglia non solo ci mette di fronte all’orrore della morte ma dà un volto anche al dolore di chi rimane: sguardi di donne che sono state madri, mogli, figlie, sorelle di uomini uccisi dalla guerra di mafia.

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