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L’eterna battaglia delle immagini: iconofilia, iconoclastia e iconoclash

Articolo. Si intitola “Iconofilia / Fantasma” la mostra personale del pittore siciliano Ettore Pinelli, proposta fino al 10 luglio alla Traffic Gallery di via San Tomaso. Un input irresistibile per riflettere sul paradosso di cui vivono le immagini, dalla notte dei tempi alla contemporaneità

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Ettore Pinelli, An Eventful Session, Taipei (cyan edge), Olio su Tela, 130x100cm, 2021, Courtesy of Traffic Gallery

Classe 1984, Ettore Pinelli vive e lavora a Modica ed è una delle voci più interessanti nel panorama artistico internazionale. La sua ricerca è incentrata sull’osservazione dal punto di vista antropologico degli aspetti relazionali della natura umana, condotti al proprio limite. A partire da immagini, video e iconografie ricavate dai media, porta in luce il rapporto interpersonale portato allo stremo che l’uomo contemporaneo ha con l’informazione.

L’indagine di Pinelli si pone sempre su una linea di confine: quella in cui nell’uomo l’istinto, soprattutto di supremazia, prende il sopravvento sulla ragione; quella tra coscienza individuale e identità collettiva; quella tra immagini violente e violenza delle immagini; quella tra iconofilia e iconoclastia; e quella tra figurazione e astrazione.

Una doppia mostra

Due curatori – Milena Becci e Gabriele Salvaterra – e un doppio titolo “Iconofilia / Fantasma” – per una doppia mostra. “Iconofilia” analizza la questione figurativa del lavoro dell’artista, mostrando alcune delle sue ossessioni pittoriche, come le immagini concitate all’interno dei parlamenti e le scene di guerriglia urbana. Registrazioni di gesti istintivi e violenti, che accadono in luoghi e situazioni tra loro molto differenti, impresse sulla tela a partire dall’immensa cambusa di immagini veicolate quotidianamente dai mass media. Gli schermi e i frame sono il mezzo tramite il quale approdare a esiti pittorici nei quali dalle figure e dal loro movimento nello spazio affiora la forza dei nostri più bassi istinti di supremazia.

Se qui Pinelli “costruisce” immagini, in “Fantasma”, invece, parte da un dipinto figurativo perfettamente concluso per procedere a una ripetuta e violenta velatura pittorica che riduce le forme figurative ad apparizioni sfuggenti, visibili soltanto dall’occhio più attento. Immagini coperte, cancellate, in un processo distruttivo che non mette in campo solamente una critica e un possibile antidoto alla profusione di immagini contemporanee, ma testa anche le qualità di presenza di icone che, pur non essendo visibili, fanno sentire la propria aura di potenza e la propria natura di feticcio.

Sono “solo” immagini?

Una cosa è assodata: viviamo immersi in una civiltà satura di immagini. Ogni secondo se ne producono milioni e il “pensare per immagini” sembra diventata la nostra principale modalità di lettura del mondo. Alcune le veneriamo, altre le etichettiamo come contraffazioni, ad altre ancora crediamo ciecamente, e poi ci sono quelle che ci rifiutiamo di guardare perché ci sconvolgono. Quel che è certo è che non riusciamo mai ad ignorarle.

Perché la verità è che oggi come da secoli l’immagine non è mai stata neutrale, bensì ha sempre scatenato forti passioni. Anzi, si può dire che sia sempre stata terreno di scontro. Esiste un innegabile potere delle immagini, inevitabilmente capace di modellare il nostro modo di vedere il mondo e di rappresentarlo.

Da una rapida considerazione storica emerge un dibattito lungo e articolato sulla natura e l’utilizzo delle immagini, che si protrae sin dall’antichità: platonici e islamici, ebrei e cristiani, politica e cronaca. E ancora oggi ci dividiamo tra iconofili, appunto, convinti seguaci delle immagini (se non affetti da voyeurismo cronico), e iconoclasti, disorientati e spaventati dalla capacità di controllo esercitata su di noi dalla comunicazione visiva.

Siamo in un’epoca in cui una vignetta su di un giornale satirico ha scatenato un’azione di guerra nel centro di Parigi, in cui l’immagine del corpo dell’uomo e soprattutto della donna è sempre al centro del dibattito, in cui opere d’arte sovraesposte diventano prigioniere della loro stessa immagine, perché non si sente più la necessità di vederle fisicamente: il potere dell’immagine di modificare la nostra percezione della realtà è più forte che mai.

Tra questi due fronti si inserisce un meccanismo per il quale il sociologo, antropologo e filosofo francese Bruno Latour nel 2002 ha coniato il termine Iconoclash, ovvero quel processo per il quale le immagini si affermano e si negano allo stesso tempo. Un territorio esitante, incerto, ambiguo, in cui non è chiaro se sia bene che l’immagine sopravviva o se sia meglio che venga distrutta. È su questo confine che, azzardiamo, si muove anche l’indagine di Pinelli.

È l’eterno paradosso che nasce dalla natura schizofrenica dell’immagine, capace di sintetizzare forma e sostanza, significante e significato. L’esempio che fornisce Latour è lampante. Un frame da un video mostra “degli hooligan vestiti di rosso con caschi e asce in mano che stanno spaccando un vetro antisfondamento a protezione di una preziosa opera d’arte. Stanno selvaggiamente colpendo il vetro, i cui frammenti volano in ogni direzione, mentre le urla di orrore che accompagnano la loro azione giungono da una folla che, sotto di loro, per quanto furiosa, è incapace di fermare lo scempio. Un altro triste atto vandalico catturato da una videocamera di sorveglianza? No. Sono dei coraggiosi pompieri italiani, che qualche anno fa hanno rischiato la vita, all’interno del Duomo di Torino, per salvare la preziosa Sindone da quelle fiamme devastatrici che hanno provocato le grida di orrore della folla che impotente si era accalcata dietro di loro”.

“Nelle loro uniformi rosse, con i caschi di protezione, cercano di rompere con le asce la teca in vetro antisfondamento che è stata costruita intorno al sacro tessuto di lino per proteggerlo – non dal vandalismo – ma dalla passione sfrenata di pellegrini e devoti che non si sarebbero fermati di fronte a nulla pur di strapparne un pezzetto e appropriarsi così di un’inestimabile reliquia. La teca era così ben protetta contro i devoti che non è stato possibile trarla in salvo dal violento incendio senza questo atto apparentemente violento che l’ha distrutta”.

E conclude: “Iconoclastia è quando noi sappiamo che cosa sta succedendo nel momento in cui si distrugge qualche cosa e conosciamo le motivazioni che sono dietro a quel che sembra un chiaro progetto di distruzione. Iconoclash, invece, è quando non si sa, o si esita, o si è in difficoltà di fronte a un’azione per la quale non c’è modo di sapere, senza ulteriori indagini, se sia distruttiva o costruttiva”.

La nostra relazione con le immagini è ancora in evoluzione. Una sola cosa è certa: non potremo mai smettere di produrle.

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