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Le tarsie del Lotto, che però sono anche del «mago» Giovan Francesco Capoferri

Articolo. Bacche di gelso, galle di quercia, zafferano e un pizzico di arsenico: le magie dell’intarsiatore di Lovere, che dipinge con il legno le idee dell’artista veneziano

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Tarsia del Passaggio del Mar Rosso, 1524-32. Basilica di Santa Maria Maggiore a Bergamo (foto Fabrizio Garrisi, fonte Wikipedia)

Tutti vanno pazzi per le tarsie disegnate da Lorenzo Lotto per la Basilica di Santa Maria Maggiore in Città Alta, ma ancora tutto da scoprire è il lavoro di Giovan Francesco Capoferri. Non si tratta ovviamente di due opere diverse, ma di quell’unico, riconosciuto capolavoro che è il coro ligneo della Basilica cittadina la cui fortuna sembra essersi sdoppiata, sull’onda dell’impetuosa riscoperta di Lotto e anche dell’idea – che di certo non apparteneva all’antico – della supremazia dell’invenzione e dell’intuizione artistica sulla tecnica esecutiva e, più in generale, del primato della pittura su «arti minori» come l’intarsio.

Così, nel ciclo intarsiato della Basilica, si continuano – giustamente – a indagare e magnificare le straordinarie invenzioni simboliche e narrative dell’artista che le ha ideate, e a rimanere regolarmente in ombra è la stupefacente e innovativa traduzione nel legno delle «storie» lottesche realizzata dall’intarsiatore Capoferri.

L’occasione di un ribaltone ci è offerta in questi giorni dal riaccendersi dei riflettori sulle celebri tarsie per l’avvio di un restauro a «Cantiere Vivo», ossia visibile al pubblico, promosso e realizzato da Fondazione MIA e Fondazione Banca Popolare di Bergamo ed eseguito dalla Bottega Luciano Gritti, in un allestimento “trasparente”, didattico e multimediale curato da Stefano Marziali con l’equipe di Smart Puzzle, per un intervento complessivo di 315 mila euro. L’intervento si concluderà nel 2023, in tempo per l’appuntamento con Bergamo Brescia Capitale Italiana della Cultura.

Il genio quieto del Rinascimento

Eppure è innegabile: chiunque oggi si trovi ad ammirare le tarsie è rapito tanto dalle fantasmagorie narrative e dagli enigmi lotteschi quanto dall’incanto di uno spartito ligneo che ha dell’incredibile. In effetti, anche all’epoca in cui si trattò di individuare un capomastro per la fabbrica del coro la selezione fu tormentata, tanto quanto quella del pittore che doveva eseguire i cartoni.

Fu proprio Lotto che, pur sapendo di suscitare il profondo risentimento del già famoso intagliatore Fra’ Damiano Zambelli (maestro di Capoferri e autore del coro della chiesa di San Domenico a Bologna e di quello collocato nella chiesa bergamasca di San Bartolomeo) puntò tutto sul talento dell’amico venticinquenne Capoferri, di una famiglia di marangoni originari di Riva di Solto ma stabilitasi a Lovere, per sperimentare la strada fino ad allora mai tentata, di una tarsia che sembrasse un dipinto, in grado di tradurre in tessere lignee le morbidezze e i sottili effetti cromatici, luministici, chiaroscurali, tridimensionali di cui la pittura era capace.

Così il pittore veneziano fornisce all’intarsiatore cartoni che sembrano tele, completi di tutte le sfumature di luce e di colore, e Capoferri si mette al lavoro muovendosi con grande intuizione e sensibilità tra essenze lignee, materiali, tecniche per schiarire, ombreggiare, mordenzare.

Pozioni segrete

Giovan Francesco Capoferri, come da contratto con il Consorzio della Misericordia, aveva compiuto un viaggio per visionare i cori intarsiati presenti nelle città del Nord Italia, e poi aveva allestito la sua officina nelle case della Misericordia nella vicinìa di San Salvatore, poco distante dalla Basilica. Qui avrebbe dovuto alloggiare con la schiera di garzoni e aiutanti e fabbricare il coro, trasferendovi tutte le attrezzature e i materiali necessari. Aveva ingaggiato falegnami, artigiani, intagliatori e si era circondato di pialle, lime, sgorbie, seghe, compassi, pignatte di rame e di pietra, recipienti in maiolica e vetro, scodelle, ampolle, mortai, torchi di legno, «papèr» (carte), piastre di ferro e fornelli. E poi di giorno in giorno, in base alle peculiarità dei cartoni forniti da Lotto, faceva acquistare i materiali necessari a trattare i legni, tra sostanze chimiche e bacche, coloranti vegetali.

Alla sua officina affluivano grandi quantità di prodotti del tutto innocui, come il formaggio per preparare la colla, ma anche sostanze altamente tossiche necessarie per trattare e tingere i legni come il verderame, l’argento vivo e il solfuro di arsenico.

Nel 1529 la guerra e la peste interrompono i lavori del coro, molti maestri impegnati nell’impresa muoiono e Capoferri, per evitare rischi, si trasferisce a Lovere con strumenti e attrezzature e da qui, qualche mese dopo, può riprendere il lavoro.

Il «Liber Fabrice Chori», il volume dei pagamenti della Fabbrica del Coro, documenta i materiali acquistati dalla bottega di Capoferri. A cominciare dai legni di bosso, pioppo, radica, acero, rovere macerata, pero, olivo, susino, abete, frassino, sandalo, variati nella tonalità con «acque di solimati e di arsenichi» o trattati con colori ottenuti tramite bollitura di bacche e minerali.

Zafferano, melagrane e «orpimento» (il velenosissimo solfuro di arsenico) sono tra i preferiti per regalare ai legni la gamma dei gialli, come quelli che aprono improvvisi squarci luminosi nei cieli oscurati, della luce che filtra da una finestra o che riscaldano di riflessi cangianti il manto degli animali. Bacche di ligustro e legno di sandalo sono utilizzati per le gradazioni del rosso, mentre per virare sulle tonalità brune i legni erano bolliti con bacche di gelso, di sambuco o galle di quercia. E ancora, il verderame e l’«endico bagade» (l’indaco di Bagdad) per conferire ai legni patine verdi.

Capoferri mette a punto uno stucco verde, probabilmente a base di arsenico, di sostanze vegetali fluorescenti o di fosforo, con il quale colmare minutissime incisioni nel legno per creare effetti luminescenti, come quello della luce della luna che vibra nella notte tra le fronde degli alberi o dei chicchi di grandine quando infuria la tempesta. L’orpimento invece è nuovamente scelto anche per restituire gli effetti metallici delle armature o le iridescenze dei tessuti di seta.

Guidato da una sensibilità geniale, Capoferri sapeva tagliare gli anelli stagionali del legno in modo da ottenere linee naturali che da sole disegnassero il tronco nodoso di un albero, un sontuoso panneggio, il pendio scosceso di un monte. Arrivava a restituire in tarsia il legno attraverso il legno, da quello grezzo di un fienile a quello lisciato dell’Arca di Noè, fino al vimini intrecciato dei filtri per il mosto della vendemmia.

Per incastonare nelle tarsie le tessere lignee (circa 3,5 mm di spessore) Capoferri ricorreva a colle come la gomma arabica o la colla di pesce, e quando il mosaico ligneo era composto, la superficie del pannello veniva uniformata e lisciata e quindi impregnata di «pisa naval» (pece da navi) per renderla impermeabile, quindi passata con una soluzione di verderame per difenderla dal tarlo.

Per profilare le figure, Capoferri ricorreva a uno stucco nero composto da gesso, colla e nerofumo (il nero di carbone), mentre i poetici chiaroscuri che fanno vibrare le tarsie, come quello dell’abito di Noè, sono ottenuti con la tecnica dell’ombreggiatura a fuoco, sfregando il legno con la sabbia rovente o con una penna di piombo arroventata. Per finire, la tarsia veniva verniciata con «vernize bona de ambra» appositamente acquistata a Venezia.

Morte per un capolavoro

Per Capoferri il coro di Santa Maria Maggiore fu letteralmente il lavoro di una vita: sta lavorando alla fabbrica da oltre dieci anni quando muore, nel dicembre 1533, probabilmente intossicato dai prodotti velenosi che aveva utilizzato in officina. Si spegne a circa 37 anni, lasciando la famiglia nel bisogno, tanto che la si ritrova destinataria di interventi di pubblica carità, come l’assegnazione settimanale di un certo numero di pani. E Lotto? Morirà poco più di vent’anni dopo, settantasettenne o giù di lì. Famoso per le sue tarsie, che però sono anche di Capoferri.

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