C’è ancora spazio per dire o disegnare sulla pianura? Non è che l’arte italiana (sia essa letteratura, arte figurativa, cinema, musica, etc.) ha esaurito ciò che doveva dire? No, se la pianura è un luogo fisico e interiore, fermo e trans-temporale, denso e intenso nelle decine e decine di richiami che essa esprime alle persone che la abitano. «Abitare» è una parola strettamente legata a «linguaggio»: chi abita un luogo, ne parla un linguaggio. I bergamaschi di pianura parlano bergamasco, i cremonesi parlano cremonese, e così via. Ma esistono altri linguaggi di pianura, che come ogni linguaggio dicono qualcosa di più profondo di ciò che sta in superficie.
Chiara Zonato e Alessandro Adelio Rossi – attraverso due linguaggi: rispettivamente la poesia e l’illustrazione – hanno raccontato la “loro” pianura in un libro d’artista, titolo «Inchiostro carta pianura» (da questo momento «ICP»), pubblicato in 200 esemplari firmati e unici (ogni libro ha in copertina un disegno originale realizzato a mano da Rossi) dalla casa editrice bergamasca Libri Aparte. L’opera verrà presentata sabato 16 aprile nel corso di «La Galleria Elettrica | puntata 2», con una mostra di Alessandro Adelio Rossi, alle ore 20 un talk in cui il sottoscritto chiacchiererà con i due autori dell’opera e a chiudere un dj set di Nairobi D, il progetto solista di Nicola Buttafuoco dei Pinguini Tattici Nucleari (evento qui).
Quando la poesia s’impone
Rossi, un amico, un compagno di avventure nel gruppo musicale Bancale, è un illustratore quotato sul territorio, a livello nazionale e oltre; Zonato è all’esordio come poetessa, ma le sue liriche suggeriscono che è tutt’altro che sprovveduta: «Ho cominciato a scrivere a 17 anni. Nel tempo mi sono cimentata in qualche racconto breve e in storie per l’infanzia, avendo come alti riferimenti Leo Lionni, Munari e Rodari». Poi, come spesso accade a chi pratica la poesia, quest’ultima si è vigorosamente fatta sentire: «Solo una decina di anni fa si è imposta la poesia; dico “imposta” perché dal momento in cui ha cominciato a parlarmi, ad aprirmi squarci di significati, è diventata una lettura indispensabile e un esercizio costante di scrittura. Continuo a leggere poesia, molta ne ho ascoltata alla radio, grazie a Radio 3 e a una preziosa divulgatrice: Maria Grazia Calandrone. Continuo a scrivere in questa forma, anche se è la prima volta che i testi diventano “pubblici”».
«ICP», secondo i due titolari, è un’opera nata quasi “istintivamente”, senza modelli di riferimento. Ancora Chiara: «Non è una cosa nata a tavolino e non saprei, in effetti, citare dei modelli. Diciamo che avevamo già l’abitudine tra noi di comunicare anche attraverso illustrazioni e scritti, quindi il dialogo che si è creato in questo libro è venuto molto spontaneo, nascendo da una memoria comune e proseguendo secondo una visione affine». Le fa seguito Alessandro: «Ad un certo punto ci siamo accorti che avevamo del materiale buono per essere pubblicato. Abbiamo pensato a tutti gli aspetti della realizzazione, insieme a Libri Aparte: tiratura limitata, copertine disegnate a mano tutte diverse l’una dalle altre, scelta della carta particolare fatta con alghe della laguna veneta».
Memoria e terapia
In realtà la dinamica creativa parte dalle illustrazioni di Alessandro, che «hanno risuonato» in Chiara: «Le immagini di Alessandro hanno subito attinto a qualcosa di interiore, facendo vibrare corde della memoria, poiché i mesi estivi della mia infanzia hanno avuto luogo in “quella” campagna, residuo della vita contadina». Presto, però, i disegni si sono mostrati portatori di qualcosa di più ampio: «una sorta di esperienza umana collettiva. Scriverne è venuto molto naturale, partendo dai frammenti sedimentati nella memoria, per arrivare a descrivere la vita umana, i suoi conflitti, le forze esercitate sull’ambiente, l’impronta che questa vita ha lasciato sul terreno: è la pianura ad avere memoria di noi. Questo dei disegni di Alessandro risuonava in me».
Memoria è la parola chiave che congiunge le due forme d’espressione: «Ho iniziato i disegni nel dicembre 2020 – spiega Alessandro – durante uno dei periodi di isolamento. Mi trovavo da solo e ho sentito l’esigenza di disegnare con le mani, con la carta e l’inchiostro. Sporcarmi e sentire l’odore dell’inchiostro nero. Ho aperto uno dei miei taccuini e ho visto degli schizzi che avevo fatto in treno tempo prima, durante un viaggio verso sud. Erano degli scorci di pianura. Da lì ho continuato a disegnare scorci di pianura, basandomi solo su immagini che avevo in mente soprattutto del Polesine, luogo di tutte le mie vacanze estive e terra natia di mia mamma, che in quei giorni ci stava salutando dopo una lunga malattia, e non mi sono più fermato».
Dunque memoria, ma anche terapia: «Probabilmente avevo un bisogno catartico, per poter affrontare quel periodo difficilissimo. L’ho trovato in una delle due cose (l’altra è la musica) che mi permette di scendere negli scantinati della mente, negli abissi, o salire su per qualche sentiero ripido della memoria e della coscienza. Quindi in questi disegni c’è qualcosa di molto personale, un’urgenza viva e scoperta, pulsante. La pianura è diventata il pretesto, il soggetto della nostra esplorazione dentro e fuori di noi».
Un libro “silenzioso”
Ma che pianura è quella di «ICP»? Siamo lontani dal cartolinismo e più vicini ad una ricerca di bellezza nella rovina: «La pianura non ha scorci da cartolina – risponde Alessandro – anzi non ha proprio scorci. È questo che mi piace. Io trovo molto più bello e poetico un angolo di sterpaglie dietro un guardrail arrugginito, piuttosto che un qualsiasi scorcio da cartolina. In questi scorci c’è tanto da imparare proprio perché non ti dicono tutto come potrebbe fare una vista perfetta da un monte o un panorama sul lago, anzi non ti dice proprio niente, e in quel niente ci si può immergere in profondità infinite».
Una profondità infinita che richiede ed emana silenzio: «ICP» ha un qualcosa di “silenzioso”, sia nelle illustrazioni che nei versi. Vengono evocati dei suoni nelle poesie, s’immagina il vento o il grido lontano di un animale nelle illustrazioni, ma a prevalere è il silenzio: «Il silenzio interiore – specifica Chiara – è una condizione necessaria come forma di contemplazione. Disegnare e scrivere sono gesti che richiedono un processo di sedimentazione del vissuto, e in genere ogni esercizio di concentrazione si attua prendendo distanza da tutto per isolare il pensiero, il ricordo, l’emozione. In questo senso può avvertirsi un silenzio nel libro. Ma forse c’è qualcosa di più intenzionale».
L’uomo che non c’è
La presentazione di «ICP» definisce l’opera «lontana da ogni forma di antropocentrismo, dove l’uomo è presente solo come ombra e traccia del proprio passaggio, breve a dispetto dell’enorme temporalità inconcepibile dell’universo». In questa dichiarazione vi è un qualcosa di “politico” nel senso più nobile del termine: Chiara e Alessandro indagano una comunità di uomini assenti, presenti a tratti solo nei ricordi o appunto presenti «solo come ombra e traccia del proprio passaggio».
È quel quid in più che rende un lavoro di valore, fra tante pubblicazioni brutte e inutili di oggi, spesso lontane dalla questione antropocentrica e a tutto ciò che da questa consegue. Alessandro: «Ogni lavoro che tenti di comunicare qualcosa, dovrebbe avere un intento “politico” a mio avviso. L’arte visuale, la musica, il cinema, il teatro, sono tutte modalità espressive, tentativi degli esseri umani per elevarsi, ma solo quando sono veramente disinteressati, riescono davvero ad essere politici e quindi a comunicare. Solo quando si riesce a liberare il campo dall’ego, si ottiene un risultato che arriva agli altri. Spero e credo che in questo lavoro siamo riusciti a farlo».
E sull’opera come reazione all’antropocentrismo: «Non so se è una reazione all’antropocentrismo, sicuramente è un lavoro che si muove senza seguire corsie preferenziali, anzi per certi versi non si muove affatto, a tratti va in direzione opposta. L’uomo è assente volutamente nei miei disegni, le uniche presenze antropiche sono i tralicci della corrente e i ruderi delle cascine crollate disseminate ovunque nella nostra pianura, assumendo quasi un significato semiotico, totem residuati di una civiltà ormai passata, finita, inglobata dal corso del tempo sotto forma di piante rampicanti e alberi cresciuti in quelle che erano ambienti domestici, cucine, bagno, camere da letto. Ruderi abbandonati in bella vista, come un monito. Io le vedo e mi ricordo che tutto finisce, noi per primi, e questo pensiero mi fa stare subito meglio: la consapevolezza della morte».
Chiara, sollecitata sull’assenza umana di «ICP» e sull’idea di limite che l’uomo sembra aver violato in una sorta di hybris che sta distruggendo la Terra, riparte dal silenzio: «Immagino sia qui che il silenzio si fa intenzionale. L’essere umano, oggi, ha tutti gli strumenti necessari per misurare sé stesso in relazione al mondo, alla longevità delle altre forme di vita, alla grandiosità degli astri; abbiamo già consapevolezza del limite. In questo libro e in questa dichiarazione c’è tutto il desiderio di spingere lo sguardo oltre quel limite, appena più in là. Dicevo che è la pianura ad avere memoria di noi: l’uomo e la sua tracotanza sono solo un’ombra e una traccia, rimane la pianura a ricordarci. La stessa pianura che un domani sarà sommersa dall’acqua e dal tempo, nel ciclo continuo di vita, morte e rigenerazione. La scomparsa dell’essere umano è una visione di tragica bellezza, a volerla guardare».
Cosa c’è oltre la pianura
Per concludere, chiedo loro di quell’oltre che in «ICP» non si percepisce. Come se in qualche modo il libro dovesse essere un passaggio obbligato verso qualcosa, che però fra le pagine non c’è. Perché si scorge soprattutto il tempo della memoria nelle poesie, e quello della natura, antropizzata ma solitaria. È un tempo fermo, un non-tempo. «Nel libro c’è il tempo sospeso della memoria, di affetti e paesaggi, e c’è un tempo fermo che non è un tempo umano: è la memoria della pianura, che in un gioco di riflessi ricorda di noi. Il passaggio obbligato forse è la nostra fine. Dopo, non sappiamo dire», dice Chiara.
E Alessandro: «Per me il libro è diventato un passaggio obbligato verso un’evoluzione. Riconoscere una certa natura, la mia, e guardare con occhi diversi ciò che ho sotto il naso da una vita. L’oltre della pianura sarà acqua, inevitabilmente. L’elemento liquido si riapproprierà di questa terra e la sommergerà. È già successo e riaccadrà. “Nulla si crea tutto si trasforma”, tutto già esiste ed è già esistito, anche noi. Possiamo solo renderci disponibili alla trasformazione, prepararci per questo, trascorrere questo tempo rendendo noi stessi un ottimo concime per il futuro, perché è inevitabile».