Se il primo atto, “Black Hole” nel 2018, si confrontava con la fisica moderna attraverso artisti interessati a indagare l’essenza della materia dal macro al micro, “Nulla è perduto. Arte e materia in trasformazione”, a cura di Anna Daneri e Lorenzo Giusti, prende il via dalla celebre massima attribuita ad Antoine-Laurent de Lavoisier – “Nulla si crea, nulla si distrugge, tutto si trasforma” (citato in “Histoire e Dictionnaire de la Révolution Française”, Éditions Robert Laffont, Paris, 1998) – per mettere in scena il dialogo, sorprendente quanto antico, tra arte e chimica (ma anche alchimia) e restituire un’idea della materia che, appunto, non si crea e non si distrugge ma, sempre viva, continuamente si trasforma.
Fino al 13 febbraio, “Fuoco”, “Terra”, “Acqua” e “Aria”, nel loro reciproco passaggio di stato, sono le sezioni di questa mostra-laboratorio in cui sono chiamati a raccolta artisti di generazioni diverse: dalle creazioni dada e surrealiste, indicative dell’interesse di alcuni autori per il tema dell’alchimia (come Marcel Duchamp, Max Ernst, Man Ray o Leonora Carrington), alle produzioni di alcuni tra i più importanti esponenti delle neoavanguardie – da Yves Klein a Otto Piene, da Robert Smithson ad Hans Haacke – includendo le composizioni di artisti affini alle poetiche dell’Arte Povera – Pier Paolo Calzolari e Paolo Icaro – ma anche opere scultoree e installazioni di autori emersi negli anni Ottanta – come Rebecca Horn o Liliane Lijn – fino ad arrivare alle ricerche recenti di alcuni tra i più significativi artisti internazionali delle ultime generazioni, come Olafur Eliasson, Wolfgang Tillmans, Cyprien Gaillard, Otobong Nkanga, Erika Verzutti e molti altri. Difficile sintetizzare un percorso davvero articolato. Tra le tante possibili, vi proponiamo qualche spunto di riflessione.
La materia negletta
La storia dell’arte – tutta – si trascina dietro ancora diversi stereotipi. Uno di questi è proprio quello che Tutta l’arte è concettuale, a sancire la priorità dell’invenzione sull’esecuzione, dell’idea, appunto, sulla materia. Questo leitmotiv ha contagiato innanzitutto gli storici dell’arte, che in buona parte dei casi analizzano nei loro saggi l’opera d’arte soltanto dal punto di vista storico, iconografico e stilistico, tralasciando del tutto il ruolo, non solo espressivo, e le preziose informazioni restituite dalla materia (alla faccia dei progressi recenti, anche in questo campo specifico, dal punto di vista delle indagini scientifiche). E poi ha obnubilato anche una bella fetta di pubblico, quella che si limita ad osservare la dimensione estetica di un’opera trovandola semplicemente “bellissima”.
Eppure se “ripensiamo” l’arte dal punto di vista della materia, i ribaltoni non mancano: ci sono artisti definiti “contemporanei” che non lo sono affatto dal punto di vista della materia, perché magari dipingono ad olio su tela; mentre ci sono forme espressive che seguono metodologie di esecuzione codificate nei secoli, che tuttavia non danno emozioni quanto plastiche, resine e acrilici.
Il tema della materia è dunque altamente sfidante, perché per la prima volta restituisce alla materia il posto che le è dovuto tra gli X factor del processo creativo e di conseguenza nella comprensione di un’opera d’arte. Gli artisti in mostra hanno consapevolmente scelto di essere “alchimisti”, ossia di interagire con le potenzialità e le metamorfosi della materia. Ma così è stato anche per tanti artisti dei secoli trascorsi, molti dei quali impagabili nella sperimentazione e nella messa a punto di nuove tonalità di colore, pestando lapislazzuli nel mortaio, macinando cinabro sul porfido, dosando allume di rocca, sciogliendo resine esotiche e bollendo semi di lino.
Uno per tutti? Il nostro Fra Galgario che nel Settecento, nell’omonimo convento bergamasco, oltre ad elaborare preparati per curare le malattie degli occhi, aveva messo a punto un colore rimasto unico e inconfondibile, che lo aveva reso famoso. Si trattava delle sue ineguagliabili lacche rosse, “forti come sangue raggrumato”, la cui ricetta è rimasta segreta fino ad anni recenti, cui l’artista ricorreva per velare gli incarnati e far brillare i tessuti sfarzosi indossati da nobili e dame.
Anche il caso vuole la sua parte
C’è tutta una parte della storia dell’arte che si può rileggere dal punto di vista della casualità che, introdotta nel processo creativo, implica da parte dell’artista la rinuncia al pieno controllo sugli esiti del proprio lavoro. Ciò non si traduce in un venir meno del ruolo dell’artista, che anzi è determinante nell’innescare il “gioco” del caso, nell’accoglierne gli esiti imprevedibili – peraltro assumendosene la responsabilità firmando l’opera.
Hans Arp racconta di aver strappato un disegno e di averlo poi ricomposto “secondo l’ordine voluto dal caso”; John Cage e Marcel Duchamp (“Erratum musicale” e “3 Stoppages Etalons”) impongono il successo del caso e la valenza del gioco nella creazione artistica; i surrealisti praticano il passatempo del cadavre exquis(far comporre una frase da più persone senza che nessuna possa conoscere l’intervento dell’altra); la frase del poeta Comte de Lautréamont, “bello come l’incontro casuale di una macchina da cucire e di un ombrello su un tavolo operatorio”, diventa uno slogan, mentre Jean Dubuffet sostiene che “la parola caso è inesatta: occorre parlare piuttosto di velleità e aspirazioni di un materiale che fa resistenza”.
Nella mostra allestita in GAMeC si osservano tanti artisti contemporanei che scelgono di confrontarsi con l’imprevedibile della materia, accettando l’incertezza di “sperimentare” la chimica degli elementi, per lasciare che il processo creativo si generi per conto proprio, attraverso i mutamenti che i passaggi di stato ardenti, solidi, liquidi e gassosi vorranno continuamente generare, senza che l’artista possa più esercitare su di essi alcun controllo.
Ne sono un esempio Il “Large Condensation Cube” di Hans Haacke, su cui appaiono e scompaiono forme generate dal “punto di rugiada” al minimo variare delle temperature in sala, o l’opera, intitolata non a caso, “Contingency”, di Dove Bradshaw, esposta a una tempesta di neve che ha innescato reazioni diverse su materiali come l’argento, il fegato di zolfo (una miscela di solfuro di potassio e di polisolfuro di potassio, che si presenta in forma di pietruzze color giallo-verdastro) e la vernice. E ancora: il vetro incandescente che scava crateri nel metallo nel lavoro di Liliane Lijn, e la lastra d’acciaio di William Anastasi, “innaffiata” quotidianamente perché a ricrearla all’infinito sia la ruggine.
Per un’etica della chimica
La mostra “Nulla è perduto” propone anche un assist alla riflessione attorno all’impatto dell’azione dell’uomo sugli equilibri naturali, dalla reperibilità delle risorse alle trasformazioni climatiche. Qualche opera specifica, poi, ci consente anche di andare oltre, portando in luce il tema della necessità di un’etica della chimica.
Opere come “Baby Contraband” di Lynda Benglis, evocazione di un luogo dell’infanzia dove l’artista vide galleggiare chiazze di petrolio sull’acqua del mare, ci fa pensare al fascino estetico dei nuovi, perturbanti, paesaggi disegnati dall’Antropocene: le meraviglie cromatiche delle vasche di evaporazione del litio in luoghi come il Deserto di Atacama o delle miniere di sale nei monti Urali, non sono spettacoli della natura ma ferite aperte dall’homo sapiens. Che non sarà più possibile rimarginare.
Vedute dell’installazione - GAMeC, Bergamo, 2021
Foto: Antonio Maniscalco
Courtesy GAMeC - Galleria d’Arte Moderna e Contemporanea di Bergamo