Qualche anno fa scrivevo per una rivista online di edilizia. Una di quelle che elencano e analizzano la legislazione in materia. Non proprio la cosa più divertente del mondo, ma tant’è. Per fortuna questa testata aveva anche una sezione di architettura, che non riguardava solo le case ma un po’ tutto, compresi i nuovi musei partoriti dall’architettura contemporanea. Fu l’occasione per fare qualche ragionamento a riguardo con Philippe Daverio, che allora era ancora in tv con Il Capitale, una versione rivista e aggiornata del suo celeberrimo Passepartout.
Di solito è difficile agganciare personaggi così “grossi” se non si è il Corriere, Repubblica o L’Eco di Bergamo e certamente Daverio non conosceva la rivista per cui scrivevo. Tuttavia riuscii a ottenere una mezz’ora di chiacchierata dopo aver contattato la sua casa di produzione e, cosa che accade davvero di rado, essere ricontattato da lui telefonicamente, probabilmente durante un viaggio o qualcosa di simile.
Daverio in quell’occasione fu gentile, disponibile, come sempre ironico e pungente. In buona sostanza mi disse che i musei di architettura contemporanea sono spesso più belli delle opere d’arte che contengono, lui che non aveva un grande amore per l’arte contemporanea, soprattutto quella “di mercato”, venduta e comprata a quotazioni folli secondo una logica che riguarda più il capitalismo che l’arte in sé.
Quello che sto raccontando è un piccolo aneddoto, che però spiega bene chi era Daverio. Uno che non faceva la star e neanche si immergeva in una finta e ipocrita umiltà. Perché, come tutti gli intellettuali di una certa sostanza, conosceva il suo valore e soprattutto il piacere di divulgare al di là del contesto, o nel mio caso della testata, con cui stava parlando. Una forma di libertà che lo condusse alle più svariate situazioni, dalla politica all’insegnamento universitario – non era laureato, diverse volte raccontò di aver frequentato la Bocconi alla fine dei Sessanta, specificando che “in quegli anni si andava all’università per studiare e non per laurearsi” – sino alla televisione con programmi come Passepartout, Emporio Daverio e Il Capitale. L’ultimo di una serie di trasmissioni in cui divulgazione ed erudizione leggera si incontravano, prima che la RAI lo mettesse non troppo gentilmente alla porta.
L’episodio con la tv di Stato, ingrato e davvero poco lungimirante, generò diverse proteste e anche una raccolta firme per non chiudere Passepartout. Del resto Daverio – nonostante fece l’assessore negli anni Novanta per la Lega a Milano – non aveva casacche politiche ma era un europeista, definizione che testimoniava non l’appartenenza a questa o quella sigla politica ma un sentire e una visione di Europa accomunata dalle stesse radici culturali. Per lui più che l’euro e l’economia, erano l’arte e le altre espressioni culturali a formarci come europei. Un’idea che negli ultimi anni era diventata un pallino su cui non demordeva.
Divulgazione per Daverio significava riportare alla realtà di tutti i giorni le vertigini di un quadro o di un’antica architettura. La sua era una forma di diffusione del sapere che non scontava accademismi, ma sapeva parlare ad un pubblico vasto, mettendogli sotto il palato quel tanto che basta per rendere tutto più gustoso e quindi interessante. Di divulgatori come lui, almeno in ambito artistico, non ce ne sono: Passepartout fu un repertorio di scoperte mai scontate, forte dell’impudicizia intellettuale del suo conduttore; Emporio Daverio un viaggio in un’Italia che celava sorprese anche nei luoghi più celebri; Il Capitale, citando Marx ed Engels, riportava ad una dimensione onnicomprensiva (dall’economia al fatto artistico) un’idea dominante nel nostro tempo. Bellissime le puntate sulla Cina, come quelle su Mario Botta e sui terremoti, che lucidamente venivano descritti come distruttori di qualsiasi tipo di capitale (umano, produttivo, le fabbriche, i beni culturali etc.).
Daverio fu tutto questo. Insegnò a visitare il museo evitando di guardare tutte le opere in una sorta di fast food percettivo che non lascia nulla, ma concentrandosi su pochi quadri. E nel museo portò la sua ironica eccentricità, con le caratteristiche passeggiate davanti ai quadri – assolutamente da imitare: non c’è nulla di più bello che essere sottilmente scherzosi dentro un’istituzione museale – senza contare i commenti aforismatici ad una tela o i giudizi trancianti su colleghi critici e artisti di tanta fama e poco genio. Ma scrisse anche libri accattivanti, come il ciclo “Il museo immaginato” in cui costruiva una sua personalissima villa-museo con le opere che più amava (in cucina ovviamente quadri di cacciagione, verdura, frutta e altre pietanze), e tenne conferenze in ogni dove, forte di un sapere enciclopedico e abile ad utilizzarlo nei momenti e nei modi più opportuni.
Nel nostro contemporaneo sconquassato dai cambiamenti, Philippe Daverio – l’uomo mai polveroso e sempre brillante come i suoi occhiali tondi e l’immancabile farfalla – ci mancherà molto.