L’emergenza sanitaria che stiamo vivendo minaccia concretamente la tenuta del sistema culturale italiano che si presenta all’appello già malconcio.
Gli operatori del settore, i privati ma soprattutto la pubblica amministrazione che alla fin fine detta le regole del gioco per i più, sono chiamati oggi ad individuare strade sostenibili per rimettere in moto la macchina della cultura.
Potremmo commettere l’errore di considerare l’individuazione di queste strade come una questione di forma. Non lo è.
Oggi non è sufficiente muovere i nostri ragionamenti da una situazione data, accettandola come premessa indiscutibile e interrogarci unicamente su come traghettarla attraverso questo mare virulento e assassino. Insomma, ciò che dobbiamo discutere non è il design della barca che deve mettere in salvo il comparto cultura.
La vera sfida è indagare la situazione data mettendo in discussione il ruolo che ha la cultura nella società e quello che per noi, come individui e come collettivo, dovrebbe avere. Solo con uno sguardo onesto e impietoso verso ciò che siamo potremo riformulare un’idea condivisa di cultura a partire dalla quale saremo in grado di elaborare un piano solido e di senso per il mondo della cultura in questo Paese.
Se guarderemo solo l’emergenza ciò che partoriremo sarà, nella migliore delle ipotesi, una soluzione emergenziale.
Il concetto di cultura è molto difficile da definire a parole. È uno di quei concetti, come la libertà, che puoi provare a raccontare in una sola frase o in un lungo trattato e avrai comunque la sensazione di non essere riuscito a comunicarne appieno il senso.
Provo a darne una mia insufficiente definizione: riferirei il termine cultura a tutti quegli strumenti che hanno come fine quello di promuovere la consapevolezza di sé e del mondo conducendoci lungo il percorso fluido e continuo della costruzione di identità individuale e collettiva.
Finché non accordiamo le nostre definizioni di cultura sarà difficile ragionare sulle strade e i provvedimenti da prendere.
Una volta individuato un lessico comune dovremo chiederci se, al di là dell’articolo 9 della Costituzione che dice che la Repubblica promuove lo sviluppo della cultura, noi oggi pensiamo ancora che la cultura sia un diritto dei cittadini perché da questo consegue il riconoscimento della cultura come servizio pubblico o meno.
Chiarito questo possiamo allora chiederci che tipo di rapporto vogliamo tra cultura e cittadino, scegliere tra fruizione, ovvero godere di un contenuto culturale in quanto parte di un percorso di arricchimento, e consumo, ovvero l’appropriazione di un’esperienza al fine di una soddisfazione personale, di un riconoscimento sociale o di una delle tante ragioni che oggi muovono il sistema di produzione-consumo in cui viviamo.
E da qui dovremmo continuare a fare chiarezza sulla natura e sul senso della produzione e della promozione della cultura in Italia. Solo così, attraverso un’elaborazione collettiva di ciò che siamo e di ciò a cui aspiriamo possiamo tracciare delle linee di volontà su cui, a quel punto sì, fare un lavoro di forma per disegnare nuove soluzioni, orientare le scelte e le risorse economiche.
Se il lavoro di forma può essere delegato agli operatori del mondo della cultura, il lavoro che lo procede, quello profondo, di sostanza, deve essere preso in carico da tutti.
Non è il mondo della cultura che deve risolvere il problema della cultura nel nostro Paese, se deleghiamo su questo non abbiamo colto la natura della questione.
Faccio un’ipotesi: io credo che uno dei problemi cardine del mondo della cultura sia che la maggioranza delle persone non ha più gli strumenti di analisi e comprensione della realtà, strumenti interiori fatti di esperienza, pratica, curiosità, capacità di formazione delle opinioni, di argomentazione, disponibilità al pensiero complesso e critico. La mancanza di questi strumenti crea uno scollamento tra la persona e la mission della cultura azzerando il grip che permette, al contatto con lo strumento cultura, una rielaborazione personale, conscia o inconscia, che è il carburante necessario a muoversi su quel percorso, di cui parlavo poco sopra, di costruzione di identità individuale e collettiva.
Se questo fosse vero il primo intervento da fare non sarebbe sui teatri, sui musei o sulle fondazioni lirico-sinfoniche, sarebbe da fare sulla scuola restituendole la funzione non tanto di somministrare nozioni e verificarne l’assunzione come un infermiere che prima ti dà la pillola e poi controlla che tu l’abbia deglutita; quanto quella di luogo di formazione del cittadino in cui favorire lo sviluppo di quelle competenze cognitive e relazionali che sono la base di una sana capacità di comprensione di ciò che ci succede intorno e dentro di noi. Sono queste competenze che ci permettono di dare valore e senso all’esperienza culturale.
E allora già lo scenario si amplia, non parliamo più solo di cultura ma anche, ad esempio, di istruzione. La questione culturale è sistemica e riguarda tutti, non è un dibattito interno al settore.
Una delle cose che mi ha lasciato più annichilito in questa pandemia è stato capire, ad un certo punto, che in ospedale non si poteva salvare tutti, che i medici sono stati costretti a fare valutazioni sulle possibilità di recupero dei pazienti decidendo chi provare a salvare e chi invece no.
Pensiamo davvero che questo non succederà anche nel mondo della cultura? Crediamo forse che noi cittadini, con le Istituzioni al seguito, saremo in grado di fare memoria dell’ormai abusato episodio di Paolo Grassi e Giorgio Strehler che aprirono il Piccolo Teatro di Milano nell’immediato secondo dopo-guerra sospinti dal sindaco socialista Antonio Greppi che sosteneva non ci sarebbe stata alcuna ricostruzione se si fosse pensato solo a dare casa e cibo e bisognava sforzarsi di promuovere anche una rinascita culturale?
Dubito che verrà raddoppiato il Fondo Unico per lo Spettacolo o le sovvenzioni ai sistemi museali, penso più realisticamente che, nella migliore delle ipotesi, non si taglierà ulteriormente e magari si varerà qualche misura extra. I soldi saranno più o meno sempre quelli e allora, in una situazione di grande difficoltà come quella attuale, diventa ancora più importante la definizione dei criteri con i quali spenderli.
Questa definizione dovrebbe, a mio avviso, discendere dal confronto accennato sopra. Se così non sarà, a definirli saranno in buona parte i gruppi di potere, le necessità della politica, la storicità come presupposto incontestabile di qualità, la visione di un comparto cultura funzionale al marketing territoriale e al turismo. Questi criteri saranno determinanti nel sancire chi, nel mondo della cultura, sopravvivrà e chi no.
Bergamo ha un sistema di offerta culturale di grande qualità e dimostra un’attenzione importante ai linguaggi contemporanei, basti pensare, ad esempio, al Festival Danza Estate e al grande lavoro di qualità che porta avanti in modo aperto e condiviso sul territorio, o ancora allo sguardo fresco e profondo di Orlando Festival o a GAMeC, a Bergamo Film Meeting, a Bergamo Jazz, al lavoro sull’arte contemporanea di The Blank e Contemporary Locus, ad Altri Percorsi… Per non parlare della musica e del ruolo che alcune realtà come Edoné ed Ink Club, solo per citarne due, hanno avuto nel fiorire di tanti giovani gruppi interessanti nella nostra città. Più attenzione alla formazione artistica di qualità e alla produzione potrebbero essere un passaggio di una buona ricetta ma tutto dipende da ciò che ci aspettiamo dalla cultura, se non chiariamo questo procederemo alla cieca su tutto e non sapremo dare risposte coerenti a tutte le domande che affollano la nostra incertezza.
Sulle aspettative che abbiamo dalla cultura questo periodo di lockdown ha disvelato, a mio avviso, un grosso fraintendimento. Viva la cultura perché può aiutarci quotidianamente a strutturarci come persone e a reggere, quando arrivano, momenti difficili come questo o contribuire a mettere a fuoco un orizzonte verso cui ripartire. Non perché ci intrattiene permettendoci di consumare contenuti, anche di qualità, nella costrizione domestica e arrivare meno alienati alla fine della quarantena.
Mi rendo conto che tutto questo discorso abbia un sapore velleitario ma se non ci prendiamo la responsabilità di alzare lo sguardo in un momento in cui l’incertezza ce lo tiene incollato al pavimento delle emergenze da risolvere, finiremo solo per cadere in una serie di trappole dalle quali usciranno vivi solo i più forti che non sono per forza i più coerenti ed efficaci rispetto ad un obiettivo condiviso, sono semplicemente i più forti.
Quindi in definitiva forse di questo ho paura: che pensiamo che il problema del mondo della cultura sia l’emergenza sanitaria in corso, sarebbe davvero un disastro. Il cambiamento o sarà profondo o sarà inutile e la motivazione per tenere duro la troveremo in una volontà collettiva, se non ci sarà questa, il rischio è quello dello scoramento. Da lavoratore della cultura penso che come categoria siamo anche disposti ad amare da morire ma a morire d’amore no.
Davide Pansera è un libero professionista che si occupa da anni di curatela di progetti culturali tra Bergamo e Milano tra i quali Festival A levar l’ombra da terra di cui è presidente, Pigmenti, Tantemani, Baleno Festival e Farneto Teatro. Ha lavorato in passato, tra gli altri, con Scuola d’Arte Drammatica Paolo Grassi, Terraforma Festival, British Council, Associazione ETRE, IETM.